Mi ha chiamato Elio per chiedermi di fare un po’ di luce sui ricordi, su quello che abbiamo passato insieme in Libia. Sta cercando di scrivere un libro, corredato da alcune delle sue bellissime fotografie. Elio abita da un po’ di anni in cima a una montagna, in una baita. Lui e Greta, la sua compagna, vivono non come i villeggianti, che hanno case ristrutturate con ogni comodità, ma come gli abitanti di quel luogo un po’ disperso, fermo nel tempo, come pastori alla fine di una valle sospesa al confine tra Piemonte e Valle D’Aosta. Lei insegue le tracce dei suoi amici lupi, lui cerca di fare ordine nella memoria. Solo loro possono ritrovare la chiave di una dimensione, un luogo a metà tra un idilliaco ritorno alle origini e la privazione dalle confortevoli conquiste della società del benessere. La natura è bella quanto arida, nelle sue concessioni. L’ultima volta che sono stato a trovarli, tra il 15 e il 16 di febbraio 2021, ero angosciato, perso, stanco. Aspettavo la fine di qualcosa. Era solo una questione di tempo.
Elio l’ho conosciuto negli anni ’90. Io non ero nessuno, un pò uno sbandato, lui già un fotografo. Ho ancora la foto che fece ad Harvey Keitel a Milano, alla rassegna cinematografica dedicata ad Abel Ferrara e che poi mi regalò. Il caso ha proprio voluto che ci ritrovassimo in Libia, per caso, dopo molti anni, nella hall di un albergo. Abbiamo poi deciso di tornare insieme a Tripoli quando sembravano ormai segnate le sorti del conflitto.
“Ti ricordi quando siamo arrivati in Tunisia, che giorno era?” Mi chiede Elio. Era agosto, siamo partiti il 20 credo, con una macchina che ci ha portati fino al confine libico-tunisino di Dehiba, nel sud. Era già controllato dalle milizie ribelli delle montagne, dove Zintan faceva la parte del leone. Il cuore della ribellione contro Gheddafi in Tripolitania. Mi ricordo più o meno tutto di quei momenti, anche se sono passati dieci anni. La macchina ci lascia poco prima dei controlli di polizia. C’era fretta di arrivare a Tripoli, i ribelli erano appena entrati da est e la rivolta interna era scoppiata in alcuni quartieri. C’era un ragazzo con la casacca azzurra delle Nazioni Unite, forse era dell’Unhcr. Stava distribuendo volantini a ogni macchina e mezzo che entrava con una serie di indicazioni su mine e ordigni esplosivi. Lo guardo. Lui ricambia il mio sguardo e mi saluta. Mi ricordo di lui, lo avevo incontrato qualche mese prima in un campo profughi, intervistandolo. Il caso, ancora una volta. Non ricordo il suo nome o il suo volto, ma solo il suo sorriso. E come ha fermato più macchine fino a farci dare un passaggio verso Nalut, sullo Gebel Nafusa, le montagne.
Era buio quando siamo passati da una città all’altra, da strade e checkpoint. C’è un falò vicino a dei bidoni. Uomini armati. Ci fermiamo a fumare una sigaretta, c’è un giornalista con una telecamera in mano che sbuca dal nulla. Poi arrivano notizie da Zawiah, anche quella città sulla costa è caduta in mani ribelli. Seguiamo una lunga colonna di ‘tecniche’ bianche, fino ad arrivare al mare. A Zawiah un altro stop e un’altra telefonata. Sono entrati a Tripoli, la strada è libera, dicono. Urla di gioia e di festa, canzoni. Entriamo a Tripoli a notte fonda. C’è silenzio e incredulità, in macchina. Arriviamo fino alla Piazza Verde. E’ successo veramente? la città è caduta? Sembra tutto finito. Il guidatore, un medico, ci posta a casa sua a dormire, nel quartiere di Gurgi. La linea telefonica funziona male e saltuariamente.
La mattina si sentono esplosioni, combattimenti a distanza, verso il porto. Non è finita, no. E’ solo l’inizio di una lunga battaglia che durerà diversi giorni. Quando scendiamo sotto casa incontriamo un gruppo di ragazzi. Alcuni di loro forse arrivano ai diciotto anni. Hanno pistole, qualcuno un Ak. Altri hanno coltelli, machete, uno ha un fucile da sub. Sembra una quadretto di Mad Max. Cerchiamo una macchina. Uno dei ragazzi si offre di accompagnarci verso la zona dei combattimenti. Verso Souk Talaat, vicino al centro commerciale, un gruppo di persone cerca di stanare un cecchino . Elio mi scatta una fotografia mentre con la telecamera mi acquatto dietro un muretto. Il miliziano spara.

Riprendiamo il percorso. Sulla strada costiera arriviamo vicino alle Tripoli Tower, due alti palazzi uffici. In macchina siamo io, Elio, e altre tre persone. Un suv bianco come il nostro arriva dalla corsia opposta. Ha la bandiera dei ribelli sul cofano. I ragazzi scambiano quattro parole con loro, qualcuno fa una battuta, ridono. Vedo solo la canna del mitra spuntare dal lato del guidatore e sento gli spari e le urla. Ci sparano addosso dalla macchina bianca. Un’imboscata. i proiettili trapassano la carrozzeria, i vetri esplodono. Ci buttiamo fuori dal lato opposto. L’autista ha un proiettile nella gamba, perde sangue. Lo trasciniamo via cercando di muoverci il più velocemente possibile. Vedo una ragazzino su un balcone che mi fa un gesto. “Vai avanti, da quel lato”, dice senza parlare. Non respiro, ho il cuore in testa. Lasciamo il ferito a un gruppo di soldati. Mentre stiamo passando parte un colpo da un’arma, per sbaglio. Puntava l’Ak verso l’alto, il ragazzo accovacciato a terra. Attraversiamo Omar al Mukthar street. E’ un lungo viale e dal fondo, da dei palazzi lontani, sparano i cecchini. Le tecniche, con i loro calibri antiaerea, vomitano fuoco a casaccio verso i bersagli. Sparano tutti.

Mi arriva una chiamata dalla Rsi. Ho ancora il fiatone e rispondo. Faccio una diretta ma non capiscono la situazione fino a quando non incominciano a sentire il crepitio delle mitragliatrici intorno a me. “Mettiti in sicurezza”, dicono. Facile. Saltiamo su un mezzo, nessuno ci calcola, nessuno ci dice nulla. Ci siamo solo noi, non c’è nessun altro occidentale. Nessun giornalista. Mentre ci muoviamo lungo la strada costiera per arrivare all’aeroporto di Mitiga, un uomo fa cenno di stenderci piatti sul cassone del mezzo.. Tutti si stendono e puntano le armi verso il cielo mentre l’autista schiaccia a tavoletta l’acceleratore passando sotto un cavalcavia. Appena lo passa tutti iniziano a sparare verso una palazzina mentre dal tetto, qualcuno spara verso di noi con una mitragliatrice pesante. Chiudo gli occhi e aspetto.
Ho questa canzone in testa mentre butto giù il mio racconto. Si chiama ‘Io e il mio amore’. L’ha scritta Paolo Benvegnù, un cantautore italiano. L’ho conosciuto, tanti anni prima, sul Garda. Ma questa è un’altra storia. I miei racconti sono cerchi nell’acqua che continuano ad allargarsi cercando sponde invisibili sulle quali approdare. A volte tornano indietro, come quelle canzoni che hai in testa e delle quali non riesci mai a sentirne o ricordarne la fine.
Svegliati, non hai mai fatto niente
E l’immagine di te che trovi interessante
Non ha mai vissuto nulla ed imprigiona il senso
Perché non sai decidere
Ne ho già visti come te stare in silenzio assenti
Fucilare gli innocenti e i propri comandanti
Perché l’uomo prega Dio ma preferisce Giuda
E muore senza vivere...
Riapro gli occhi mi guardo le braccia, poi le gambe. Tocco in più punti il giubbotto antiproiettile. Tutto a posto. Oggi non tocca a me. La colonna si ferma a Souk al Jumaa. Loro proseguono, noi decidiamo di scendere. Intorno è pieno di gente armata. Siamo in periodo di Ramadan e fa un caldo atroce, è agosto, e qualcuno spacca con il calcio del fucile delle angurie che vengono poi divise. Quando si combatte si può soprassedere al digiuno, se necessario. Anche io ho una sete tremenda. Un gruppo di ragazzi si fa avanti, qualcuno parla inglese. Conosciamo Mohamed e Hatim. Ci chiedono chi siamo, ci presentiamo e poi ci portano in una casa dove possiamo riposarci. Siamo distrutti, esausti, scossi, ma questo è niente di fronte ai giorni a venire. Ho lasciato il caricabatterie della telecamera nell’altra casa, e questo è un problema. Insieme a loro c’è un ragazzo tetraplegico, spinto a turno da questi ragazzi cresciuti troppo velocemente per fare la guerra. Ha la bandiera ribelle attaccata alla carrozzina. Qualcuno gli appoggia un Kalashnikov sulle gambe. Lui ride, è felice. Ride insieme agli altri.
Souk al Jumaa è un quartiere da decenni antigheddafiano. L’odio sotto la cenere, dalle manifestazioni studentesche per un paese più democratico del 7 aprile 1976, represse con il sangue, con la detenzione, con le botte. Con i corpi di Omar Dabob and Muhammed Ben Saoud, e molti altri, impiccati pubblicamente nella Piazza Verde un anno esatto dopo, il 7 aprile del 1977. Molti di quegli studenti erano di qui. Anche Mohamed mi racconta delle umiliazioni, delle botte prese qualche mese prima, nelle ultime retate. C’ero anche io in piazza, davanti alla grande moschea quando una manifestazione spontanea è stata dispersa, attaccata da supporter di Gheddafi armati di coltelli e poi dalla polizia. Poi il nulla. Silenzio. Fino a oggi.
Dormiamo in una casa vicino alla moschea. il cortile è stato trasformato in un bivacco. Dentro la moschea medici curano come possono i feriti. Ci sono voci, sangue, urla.
Continua –