Kalli Anderson insegna alla Craig Newmark Graduate School of Journalism di New York (che è alla City University of New York o CUNY). E’ la direttrice del corso di audiogiornalismo (qui la sua bio). Qualche giorno fa ha twittato dicendo qualcosa che dovrebbe essere la normalità e quindi ovvio, ma evidentemente non è così tanto ovvio, specialmente negli Stati Uniti e specialmente in alcune scuole di giornalismo dove si confonde la narrativa con il giornalismo stesso. Il thread è molto interessante.
La Anderson scrive poi “Sometimes a really great story happens or is told and we are there to record/document it, and you know what? Fine. It’s when we impose stories on something that doesn’t quite fit our idea of what a story should be that things can get slippery. This is where we might find ourselves slipping into calling real people “characters” and getting really worried about arcs over truth and beauty and complexity. This is where we might be tempted to pedantically tell the audience “what it all means.””.
Ecco, quando si arriva a chiamare “personaggi” le persone reali, come se si parlasse di uno script per un film, qualcosa non funziona. il passo verso il guidare questi ‘personaggi’ verso una idea che è propria e non è più la semplice costruzione narrativa di un pezzo è breve.
Ovviamente nel testo scritto questa manipolazione è ancora più semplice. Esempio: “Quando tizio stava facendo qualcosa, a X chilometri di distanza gli alieni stavano atterrando sulla Casa bianca”. Romanzo. E’ una cazzata. La maggior parte delle volte che facciamo qualcosa non succede niente di eclatante e nessuno collega quello che sta facendo a un fatto più importante che si svolge a mille chilometri distanza. Lo fa il narratore extradiegetico. E questa è narrativa. Una storia. Un trucco appunto. “A trick“. Fin qui però fa parte del gioco aperto con l’ascoltatore. Però se questo gioco lo stiriamo, lo allunghiamo e facciamo dire o fare qualcosa a questi personaggi sulla base di una nostra storia, sviluppando il nostro lavoro sulla base di archi narrativi che competono sempre al romanzo, non alla realtà, forziamo i ‘personaggi’ ad avere ritmi che nella loro vita normale non hanno.
Chi ha detto che una una storia per funzionare deve per forza avere un arco narrativo con un protagonista, un conflitto e una soluzione? Non siamo a Hollywood, non è una fiction o una serie tv a puntate. Non stiamo scrivendo una sceneggiatura e non stiamo facendo ‘Lost’, dove a ogni fine puntata serve un picco. Non è ‘il viaggio dell’eroe’ di Joseph Campbell.
E ovviamente questa è una truffa nei confronti dell’ascoltatore se si si forza la narrazione. Altro problema è che il fact-checking sui lavori radio è rarissimo (ovviamente non sto parlando dell’Italia dove il concetto stesso di fact-cheking sul giornalismo è talmente lontano che servirebbe una missione spaziale extragalattica per andare a riprenderlo).
Ma in altri luoghi, uno di questi fact-checking su un lavoro radio ha portato nel 2020 grandissimi problemi al New York Times. Parliamo della serie podcast ‘Caliphate‘di Rukmini Callimachi. Qualcuno ha definito il suo stile ‘cinematic narrative‘. Qui sul Washington Post potete leggere il gran casino che ne è uscito fuori e pure sullo stesso Nyt. La Kallimachi dopo il fact-checking è stata demansionata e non ha più potuto coprire argomenti sensibili quali quello del terrorismo.
Tornando a queste narrazioni spinte, è un po’ come aggiungere del glutammato a una minestra sciapa. Se hai una storia forte la racconti senza bisogno di fare escamotage da creativo, e spesso tutta questa ‘carta da regalo’ serve a impacchettare una scatola vuota. Molta attesa e poi nulla. Vuoto.
In casa nostra i podcast italiani sono ancora poco sviluppati. Se oltreoceano lo storytelling ha una funzione preponderante nella costruzione del podcast, qui da noi a parte rari casi ci troviamo di fronte a lavori con un problema di narrazione. Tout court giornalistici. La voce fuori campo, che è la voce del giornalista, è spesso invasiva e continua, non lascia quasi spazio agli intervistati, sovrapponendosi continuamente o all’opposto sporadica, mancando un filo, e spesso sono lavori dove l’assenza di altre voci di doppiaggio rende estremamente mono-tono il racconto. Tralasciando la mancanza di attenzione alla pulizia del suono, la sintesi e l’eliminazione di passaggi inutili, il focalizzarsi troppo su elementi emozionali etc. La lista è molto lunga.
E a volte manca proprio una struttura.
Mi sono andato a sentire una intervista della Anderson e ho trovato altri spunti interessanti: uno di questi è sul concetto di ‘how to elevate the experience of non-living beings‘. All’inizio non avevo capito bene cosa significasse. Poi ho trovato un suo lavoro sperimentale, pubblicato nella sezione shortcuts della Bbc Radio4, the Night Swimmer. Se lo ascoltate capirete il concetto. Il lavoro è stato definito ‘mesmerizing’, ovvero ipnotico, affascinante. Fa un po’ sorridere questa parola, non la sentivo da Dylan Dog anno 1987 (l’albo era intitolato ‘La zona del crepuscolo’). La mesmerizzazione era una pratica alternativa alla medicina della fine dell’700 basata sull’applicazione delle teorie di Franz Anton Mesmer, medico tedesco, e basata sull’applicazione di magneti sul corpo.
Da qui il termine che nell’italiano corrente è pressoché sparito, direi.
Un paio di segnalazioni: uno dei migliori podcast sull’Afghanistan lo trovate sulla Bbc e l’ha fatto la giornalista Sana Safi. Afghanistan and me, il titolo, e lo potere sentire qui. un racconto intimo dove la storia della sua famiglia e la sua storia si fondono con la storia stessa del Paese. Veramente bello.
Un secondo, ovvero una serie questa volta, è della collega della Cnn Clarissa Ward. Si chiama Tug of war, diverse puntate che partono con l’Afghanistan per poi muoversi in svariate direttrici nel mondo come Russia e Birmania. Paesi con democrazie in pericolo, dove gli attivisti per i diritti umani lottano a rischio della loro vita e di quella dei loro cari. .