Su Carver e due racconti

Ho letto ultimamente alcuni articoli sull’editor di Carver, Gordon Lish, e su come tagliava i suoi racconti riducendoli all’osso. A volte anche del 70%. Mi ha abbastanza impressionato il suo modo di ‘segare’ gli scritti di Carver. D’altra parte forse lui non sarebbe quello che è se non fosse stato per il lavoro di editor di Lish. Quanto fosse complicato il loro rapporto lo si può leggere qui sotto.

Scriveva Carver a Lish: “Adesso ho una gran paura, una paura da morire, lo sento, che se il libro fosse pubblicato nella sua attuale forma revisionata, non riuscirei mai più a scrivere un altro racconto, Dio non voglia, per darti un’idea di quanto intimamente senta collegate alcune di quelle storie a rimettermi in salute e recuperare il benessere mentale…“.

Sto rileggendo in questi giorni ‘Di cosa parliamo quando parliamo d’amore‘ e come in ‘America Oggi‘ (la trasposizione cinematografica fatta da Altman di alcuni racconti di Carver) l’importante non è mai sapere come vanno a finire le storie, ma ricordare quelle instantanee scattate e lasciate su un tavolo, sospese.

Qui sotto due racconti brevi che ho scritto in tempi diversi e che infilo qui perché non troverei altro contenitore migliore se non dopo un inizio dedicato a un maestro del racconto.


La luce entrava dalla finestra della cucina. Il primo sole dopo giorni di pioggia. Lei stava dipingendo. Lui fumava assorto guardando fuori. Si erano incontrati per caso, un giorno di settembre, in un supermercato vicino alla chiesa del paese. Banalmente, così era nato il loro amore. Tra gli scaffali.

“Stavo pensando che potremmo uscire”, disse lui. Lei stava dipingendo. Subito mise via i suoi colori, pulì i pennelli e sistemo le tele in una stanza. I gatti dormivano sul divano. Lui andò in bagno a lavarsi i denti. In fondo non aveva molta voglia di uscire. Aveva mentito. Avrebbe preferito restare in casa a guardare la partita. Quando riaprì la porta del bagno lei era lì davanti. Lui distolse lo sguardo fissando un punto qualsiasi della parete.

Lei gli disse “non pensavo che sarebbe andata a finire così”

“Così come?”, rispose.

Lei andò in cucina e armeggiò per un attimo con la scatola dei colori. Rumori nervosi. Poi scoppiò a piangere. Lui la sentì ma non si mosse. Non sapeva cosa fare. Dopo un po’ la raggiunse. La abbracciò cingendole le spalle. Lei si girò. I suoi occhi azzurri erano bagnati di lacrime. La baciò con forza. Poi versò da bere in due bicchieri da una bottiglia di vodka tenuta nel freezer. La baciò ancora. La stanza diventò buia.


L’aveva vista per caso davanti a un negozio, in centro. Capelli neri corvini, viso mediterraneo con un tocco vagamente orientale. Un pesante e sapiente trucco. Lui la fissò guardandola dall’interno della vetrina. Era entrato per comprare una camicia. Entrambi avevano accennato un sorriso. Qualcosa di non calcolato, istintivo. La ragazza prima di andarsene si girò ancora una volta. Lui lasciò la camicia sul tavolo e si diresse velocemente fuori, bloccandole il passo. Dopo pochi minuti erano in un caffè, seduti al tavolino di un bar. Non era solito fare in quel modo.

Si scambiarono i numeri di telefono. La rivide dopo due settimane a cena in un ristorante tailandese. Parlarono per ore davanti a un pad thai fumante, bevendo vino rosso. Lei non era di Milano, gli disse che si trovava in città per vedere una persona, un medico da poco trasferitosi in città per lavoro, in un ospedale dell’hinterland.

La notte lui si svegliò sentendo le vibrazioni di un cellulare. La luce rischiarò debolmente la stanza. Una chiamata in arrivo. Vide delle lenti a contatto sul comodino. Le sue lunghe ciglia finte erano appoggiate accanto. Solo per curiosità scese dal letto, lentamente, e si diresse verso l’altro lato. Guardò il cellulare di lei. C’era un messaggio. Poi, dopo poco, un altro. Era da un po’ che qualcuno la cercava.

Il suo viso, ora struccato, era quello di una qualsiasi ragazza. Le scostò leggermente il lenzuolo e la osservò nelle sue lisce nudità. Era bella. Quando lei si risvegliò, la mattina, lui non c’era più. Trovò un biglietto sul comodino. C’era scritto un indirizzo, un orario e una data. Una settimana esatta da quel giorno.  In quel momento lo schermo del cellulare si illuminò di nuovo. Rispose.

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