Campo minato 3

Le prime due parti di Campo Minato le potete leggere qui (1) e qui (2)

Il furgone è immobile sulla strada. Il motore spento, la lamiera attraversata come burro da squarci irregolari. I buchi sono dappertutto. I vetri esplosi. Schegge luccicanti ovunque. Ci sono delle figure dentro il furgone.

L’aereo continua a girare a caccia di altre prede. Ho sete di immagini, di fermare il tempo su un supporto, a memoria. Mi avvicino con la telecamera. Ancora di più. Una scheggia ha aperto la pancia del guidatore. Le interiora sono esposte. Luccicano pure loro, al sole. Sposto l’obbiettivo. Accanto al posto di guida, una donna. Ha una striscia di sangue che le scende da sotto il velo, fino al mento. Ha delle piccole gocce sul collo e sulle spalle. Dietro, altri due cadaveri. C’è odore di sangue. Il sangue puzza, dopo un po’. Questo sa di pulito, di caldo. Il furgone ha una bandiera curda sul vetro posteriore. “Andava ad Afrin” dice uno dei ribelli. Il colpo è arrivato una decina di minuti prima. Lo abbiamo sentito a distanza.

L’aereo continua a girare sulle nostre teste e ci nascondiamo in un fabbricato, mentre fuori alcuni sparano con una mitragliatrice Pkm verso il cielo. Sprecano proiettili, principalmente E’ ora di schiodare da lì.

C’è questa immagine di brigata, tutti in posa per lo scatto. Dietro quelli con gli Rpg, come una fotografia di classe, ognuno ha un posto assegnato. Incrociano le canne dei mitra e fanno il segno a V di vittoria. Molto sono ragazzini. Qualcuno di loro ancora non ha sfiorato una donna, però ha già ucciso un uomo. Portano fasce in testa con scritto cose tipo Allah Akbar o l’attestazione di fede.

Facciamo base nella casa di Abnour. Una casa di campagna ad Ayan, poco fuori Aleppo. Ho il ricordo di qualcosa di dolce, una composta, fatta con le rose e un altro frutto, al mattino. C’è un cortile con un bagno. Ci laviamo come ci si può lavare: una canna per la doccia, i denti. E’ l’ultimo dei problemi.

La casa ha diverse stanze, noi ne prendiamo una dove dormiamo e lavoriamo. Materassi per terra, i nostri sacchi a pelo sopra. La sera saliamo sul tetto, quando tutto è buio, e proviamo a utilizzare un collegamento satellitare per inviare il girato. La paranoia degli aerei è palpabile. Lavoriamo con le torce frontali e una piccola luce puntata verso terra, accesa saltuariamente.

Mi portano un gatto, una mattina. Un gattina per la precisione, minuscola, rossa. La porta un uomo dentro un sacchetto bianco. Ha un campanello di ottone attaccato al collo. “Un regalo per te” mi fa capire Abnour. Hanno notato che gioco sempre con i gatti e che divido con loro parte del mio cibo, quando entrano in casa, mentre mangiamo seduti sul pavimento, in cerchio. Menta fresca, pane, verdure e formaggio, principalmente. A volte carne.

La gattina dorme con noi in stanza, la notte. E’ diventata la nostra mascotte. Una mattina ci prepariamo presto, dobbiamo fare gli zaini per entrare ad Aleppo. E’ tempo. Ci portano alla brigata. Saliamo sulla macchina del comandante, una macchina civile. I bagagli ce li porteranno dopo. La macchina sfreccia in mezzo a strade perse in campi e paesaggi periferici fatti di costruzioni di mattoni grigi. La macchina accelera, procede in alcuni punti in maniera irregolare, rettilinei dove è meglio correre. Ho sempre l’immagine di un proiettile che arriva verso la mia faccia. Ora muoio, ora muoio, ora muio.

Se lo penso, se lo immagino, non succede.

Siamo nel quartiere curdo. C’è un checkpoint di miliziani con la bandiera del Rojava. Ai tempi c’erano accordi tra le parti, nessun conflitto aperto, o quasi. Un territorio neutrale, quello controllato dai curdi ad Aleppo, dove il regime non bombardava e i ribelli avevano alcune case usate come basi o punti di sosta. In una di queste ci fermiamo. All’interno stanno interrogando un uomo, è spaventato. Il comandante gli urla in faccia, qualcuno gli smolla un ceffone a mano aperta. E’ un poliziotto curdo. Sul cellulare gli hanno trovato delle foto di Assad. Per lui finisce male.

Tenta di spiegarsi, noi non capiamo ma capiamo gli atteggiamenti e i gesti, l’implorazione, la richiesta di perdono, gli occhi, la paura. Il comandate è impassibile. Ci portano fuori dalla stanza e si alzano le voci, si sentono dei colpi sordi, la voce rotta, urla, altri colpi. Lo stanno picchiando. Faccio un tentativo di spiegare che non si devono picchiare e torturare i prigionieri, che è un crimine, che poi si è uguali a loro, ma non ha senso quello che dico. Non in una guerra come questa. Troppo sangue. Li lasciamo finire il loro lavoro.

Mentre fumo una sigaretta sulla via, insieme a dei soldati, si sente uno stridio di gomme, uno motore tirato e subito un auto appare all’improvviso dalla via laterale. Sparano dal finestrino. È tutto così veloce. È sempre tutto così veloce quando sparano. Capisci tutto dopo. Una frazione di secondo, lo shock e poi gli uomini si buttano in mezzo alla via sparando a loro volta con i Kalashnikov, cercando di colpire la macchina in fuga. In strada ci sono civili, la gente scappa.

La sera ci infilano dentro un mezzo. Percorriamo un vialone in mezzo ad alte case. “Toglietevi gli elmetti, stiamo passando vicino a una base di Assad. È pieno di cecchini. Se vedono qualcosa di vagamente militare vi sparano”. Aspetto il colpo.

Se lo penso, se lo immagino, non succede. È il mio mantra magico personale.

Arriviamo in una area industriale. Fuori un gruppo di uomini armati vestiti di nero. I miliziani parlano tra di loro, noi aspettiamo in macchina. Poi ci fanno cenno di scendere. Entriamo nell’edificio, una ex fabbrica. Mettiamo la nostra roba in una stanza. Non abbiamo portato i nostri sacchi a pelo da Ayan. Ci buttiamo su dei materassi lerci. Siamo sudati e stanchi. Le coperte sono piene di pulci. La notte non passa più. Il gruppo a cui ci hanno lasciato è una katiba islamista di duri e puri. Facile abbiano simpatie per Al-Qaeda. Nessuno fuma e per farlo dobbiamo metterci in disparte. Uno di loro parla inglese e passiamo la mattinata seguente a discutere su concetti quali jihad, sistemi politici e sulla rivolta in atto contro il regime.

Qui ho un buco. Non mi ricordo come ritrovo Abdullah Alyasin. Ma siamo di nuovo con lui. Una casa sempre vicino a una grossa rotonda, nei pressi dell’ospedale. Ci ospita un altro mediattivista. Che però non c’è in quel periodo, è in Turchia. Ha lasciato sotto il letto una pistola. La prendo. E’ scarica. La rimetto sotto il letto, insieme a un telefono satellitare. I bombardamenti continuano giorno e notte. A volte s0no così intensi che stiamo tutti in piedi, sotto i tramezzi, elmetto in testa e sorrisi nervosi, ad aspettare il colpo che arriva. Sono cose a cui ti abitui, dopo qualche giorno. Poi puoi pure passare ore morte, durante le attese sul terrazzo, seduto su una sedia, mentre ogni tanto senti sfrecciare con quel ronzio metallico, un proiettile vagante o un pezzo di scheggia partito chissà dove per tagliare l’aria . Spari ed esplosioni sono dappertutto. Una sinfonia mortale che ti accompagna continuamente. Anche quando tornerai indietro.

Se lo penso, se lo immagino, non succede.

È il mio rito. Questo e Into the White dei Pixies, che ascolto ogni mattina. La vita è fatta di segni, percorsi, linee, visioni.

Riesco a farmi chiamare da Roma. Antonella mi dice che Dubrovnik, la mia gatta, ha i reni andati. Era andata a prenderla a casa mia qualche giorno prima. Un vicino l’aveva trovata in giardino, in stato confusionale. In clinica dicono che non c’è nulla da fare. L’unico modo per cui la posso ancora vedere in vita, è sottoporla a flebo più volte al giorno. Dicono che è meglio sopprimerla. Domando se è possibile tenerla in un freezer, così posso vederla quanto torno. Richiesta assurda. La sopprimono nel pomeriggio.

Il giorno precedente ho visto un gatto con una zampa quasi staccata che correva nel souk di Aleppo. Poi l’ho rivisto dopo un paio di ore morto in un angolo. C’è un altro gatto che mi aspetta ad Ayan. E’ un segno.

La moschea degli Omayyadi è appena stata presa dai ribelli. Per arrivarci percorriamo strade dove i cecchini sparano al primo movimento. Correre da una parte all’altra, prendendo la rincorsa. Cadere inciampando in un portone, in ginocchio e poi in avanti, con il peso del giubbotto antiproiettile che ti trascina. Ridiamo con l’adrenalina che scorre ai massimi livelli. Ci infiliamo in squarci nei muri fatti per passare da una casa all’altra senza rimanere allo scoperto. Il nemico è a poche decine di metri. Ci infiliamo in cunicoli, scavalchiamo montagne di macerie. Un ultimo squarcio ed entriamo dentro la moschea. I segni dei combattimenti sono dappertutto. Fori di proiettile sfregiano le antiche mura, schegge di legno e vetri sul pavimento. C’è un Corano per terra e c’è una scia di sangue che inizia appena entrati nel cortile interno. La scia prosegue dietro due imponenti colonne. Si intravedono un paio di scarpe da tennis e una mimetica. Un soldato con la bocca aperta, i capelli ricci, neri, gli occhi fissi. il sangue è rappreso. Questo sangue puzza di morte.

Se lo penso, se lo immagino, non succede.

L’elicottero spara.

-continua

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