Quest’anno riprende il War Reporting Training Camp. La sesta edizione. Dovrebbe essere la settima ma una è saltata a causa del Covid. Sette anni di storia per questo corso che forse è la cosa più bella che ho mai realizzato, professionalmente parlando. La classe 2021 è già piena, i ragazzi vengono da tutta italia, dalla Sicilia al Piemonte, e abbiamo quest’anno anche alcune persone che sono originarie di altri paesi e lavorano in contesti difficili, come Colombia, Rdc e Senegal. Forse verrà anche un collega dall’Iraq.
Non torno a Milano da fine gennaio scorso. Esattamente dal 29 gennaio.
Poco più di sei mesi. Forse mi fermerò al mio rientro verso Roma, dopo il campo. Se succederà, sarà anche per chiedere dei chiarimenti su questioni familiari che per troppi anni, decenni, non ho voluto affrontare.
Sono un uomo che ha perso la memoria. Soprattutto a livello familiare. Sono rimaste pochissime persone che possono aiutarmi a ricordare cose e fatti sulla mia famiglia, che mi raccontino come è morto mio padre, che mi raccontino cosa facevo e come mi sentivo al funerale di mia madre, che mi spieghino cosa succedeva in tutti quegli anni, perché io non ne ho realmente memoria. Non ho memoria di quasi nulla che riguardi la mia famiglia, la mia infanzia, parte della mia adolescenza e del mio diventare adulto, se non per cose riportate da altri. Ho buchi, rimozioni, periodi confusi, omissioni. Devo registrare, intervistare, fissare su carta. Lasciare traccia.
Leggere i segni sulla mia pelle non basta.
Per me tornare in Valle d’Aosta è una boccata d’aria, una immersione nel mare di sogni e desideri di chi ancora ne ha e vuole mettersi in gioco, e mi piace che alcuni ex corsisti tornino, come tutti gli anni, a trovarci. E’ un modo per fare il punto, per rivedersi, per bere una birra insieme.
Vedere attraverso gli altri gli anni che passano.
Con diverse persone venute negli scorse edizioni sono rimasto in contatto. Con altre meno. Il corso diventa un luogo senza tempo dove mettersi alla prova e condividere il proprio vissuto. Si formano gruppi, si scambiano contatti, emozioni, esperienze. Un modo per ricevere nuove energie. E per donare qualcosa. Non tutti poi riusciranno a fare quello che sognano, altri cambieranno obbiettivo. C’è chi ha più possibilità di partenza di altri, per via delle proprie condizioni economiche, chi ha più fortuna e chi, anche, ha più talento e costanza o ha più ambizione nel giocarsi tutto per arrivare.
Il punto è dove si vuole arrivare e cosa si è disposti a sacrificare in cambio di quell’obbiettivo.
Quando ho iniziato a fare questo mestiere il mio desiderio è sempre stato quello di coprire gli esteri. Non ho mai ambito a premi o altro. Mi sono sempre spaccato in due per riuscire a pubblicare, senza conoscere nessuno, insistendo testardamente fino ad arrivare alle testate nazionali e talvolta anche internazionali. Nessuna scuola di giornalismo ma un praticantato e tanti calci nel culo e porte chiuse. Alcuni periodi ho dovuto arrangiarmi, ho fatto lo scaffalista nei supermercati, di notte, bevendo qualsiasi superalcolico nei cessi con gli altri, il magazziniere a Milano con gente che stendeva alle nove del mattino sul muletto, trafficato sigarette con arabi a Londra. Nella vita ho fatto un po’ di tutto. Ma non sono stato abbastanza figlio di puttana per continuare a farlo. E sicuramente mi sono anche divertito, a modo mio. Una mia scelta, quella di non cercare stabilità, forse perché c’è stato un tempo in cui l’avevo e mi è sempre stata stretta. E poi ti serve la testa, per farlo.
I miei amici sono cuori di teppisti.
Ma forse questo è stato un bene. Quando non hai bisogno e hai il culo coperto, hai molta meno grinta per cercare di emergere. Tanto, qualsiasi cosa succeda, hai sempre qualcuno che ti pulirà le mutande e ti rimetterà in piedi. Dall’altra parte però, chi non ha bisogno di soldi per lavorare, può permettersi di perdere molto più tempo dietro a un progetto e anche soldi per pubblicare senza corrispettivo o guadagnando meno del tempo e dei soldi investiti.
A breve uscirà il mio primo articolo per El Pais. L’ho scritto in inglese e lo hanno tradotto loro in spagnolo. E’ la prima volta con una importante testata estera come questa. Una prova con me stesso, come sempre.
Qui in Italia invece il mio soggetto è stato rimbalzato da due quotidiani nazionali. Uno neanche ha risposto. Eppure mi avevano anche in qualche modo introdotto al caporedattore esteri.
Niente da fare Tinaz, non è il tuo giro questo.
Mi sono rivolto a El Pais dopo un webinar che ho seguito dell’European Federation of Journalists dove c’era un loro redattore. Si parlava di giornalismo freelance. Così ho mandato un pitch.
Quando sei alle prime armi ti eccita vedere il tuo primo lavoro pubblicato, è una soddisfazione immensa. Ora è solo lavoro.
Ho fatto decine e decine di viaggi, riempiendo due passaporti di timbri. Come tutte le cose avvenute nella mia vita, nessuno mi ha mai regalato nulla. Avrei voluto essere stabilizzato in qualche giornale o media per cui ho lavorato assiduamente in questi anni, a un certo punto, ma non c’è mai stato verso. Entrano altre logiche ed altre persone.
Anni di lavoro durante i quali ho sacrificato molto delle mie relazioni personali, anni durante i quali non c’è mai stato un momento nel quale dire basta, uno stop, perché anche in vacanza, anche quando non lavori, sei sempre disponibile a una chiamata, 365 giorni l’anno, non puoi dire di no. E sei sempre con la testa sul lavoro, sempre a pensare al prossimo passo, al prossimo progetto, a come riuscire a tirar su i soldi per coprire il mese a venire e i seguenti. A cercare nuove idee, finanziamenti, commissioni. Le bollette, le scadenze fiscali, le rate. Tra Scatti di umore, rabbia, frustrazione ed eccitazione. Montagne russe. I miei colleghi freelance della mia generazione e anche più giovani sanno di cosa sto parlando.
E’ un lavoro che mentalmente ti porta, un po’ alla volta, a uno sfiancamento. Sai che quanto speso nelle tue energie non supera mai quanto ricevuto, in termini sia economici che di riconoscimento. Le pacche sulle spalle vanno bene all’inizio.
Guardi il tuo montante contributivo per la pensione ed è meglio non guardarlo, perché così com’è avrai la pensione minima, come lavoratore autonomo. E non hai nessuna proprietà, non hai messo abbastanza soldi da parte, non hai nessun tipo di copertura familiare o paracadute. Eppure sei stato ovunque, hai coperto le guerre più importanti di questi ultimi 20 anni, dall’Iraq all’Afghanistan dalla Libia alla Siria all’Ucraina. Hai raccontato storie di disperati e anche storie positive, storie di migranti, storie di fatica, storie legate ai sogni, a un mondo diverso, alle aspirazioni e ai desideri che tutti noi nella vita abbiamo e che vorremmo realizzare.
Questioni internazionali importanti, eventi storici.
Storie più piccole ma non meno importanti di persone, di musicisti, di uomini e donne che lottano per i loro diritti, persone che cercano giustizia, artisti, letterati, inventori. Storie di magia e di religione, musei.
Centinaia, migliaia di persone incontrate sul tuo cammino.
Reportage da mezzo mondo. Sotto il sole, al gelo, durante i monsoni. Un dispendio di energie fisiche e mentali enormi. La tensione ogni volta che qualcosa possa andare male. Un sequestro, un ferimento, un incidente o banalmente, qualsiasi stupido impedimento che ti impedisce di portare a compimento il tuo lavoro. La febbre, gli svenimenti per lo stress e il caldo, le litigate furiose tra compagni di lavoro (i miei amici/colleghi lo sanno quanto posso diventare stronzo quando sono sotto pressione), i piccoli traumi legati alla Siria. E poi ogni volta rimettersi in pista, tornando nel solco. Recuperare. per poi ripartire. Ogni tanto perdi qualcuno. Le strade si dividono. Ci siamo anche qui divertiti.
Intanto le persone intorno a te fanno altro, si muovono, vanno avanti.
Quello del giornalista è un mestiere logorante.
C’è una pagina su Facebook dove sono iscritti più di 16mila giornalisti, fuoriusciti dalle redazioni per licenziamento o per scelta, la maggior parte americani, nella quale si raccontano e raccontano quale è stato o sarà il loro ‘piano B’ per uscire da una esperienza considerata spesso fallimentare, stressante e poco remunerativa quale è quella del giornalismo a livello ormai globale. Molti hanno optato per il settore della comunicazione aziendale, scolastica o pubblica, altri hanno cambiato radicalmente lavoro.
Per come l’ho inteso e praticato io, è un mestiere faticosissimo. Un mestiere nel quale devi passare ore davanti al pc, a studiare, preparare progetti, tenersi aggiornati con le nuove tecnologie, passare ore poi a viaggiare, camminare, aerei, macchine, le cazzo di suole delle scarpe, con il tempo contato per ogni cosa e tutto che deve filare alla perfezione. Basta un errore per sputtanare tutto. Lavorare come macchine industriali.
E poi cede un bullone, si allenta una vite, il motore vibra troppo e fa saltare qualche perno e la macchina si blocca. Niente di irreparabile ma hai il segno delle riparazioni, una dopo l’altra. Che si accumulano. Devi subire le frustrazioni di chi sta sopra di te e decide, come è successo, se puoi continuare a lavorare o no. Se alzi troppo la testa, sei fottuto.
Oggi si legge di sportive internazionali che raccontano dei loro problemi legati alla loro sanità mentale. E tutti pubblicano post di solidarietà. Gli stessi giornali e media che praticano mobbing al loro interno sui precari a contratto, gli stessi redattori che ribaltano le loro frustrazioni sulla catena più debole e meno tutelata dell’informazione, i freelance. Farisei.
Tutta questa comprensione per i propri simili spesso non c’è. Cedere sembra quasi una colpa. Non si capiscono pienamente amici, persone vicine, colleghi. Non si comprende il loro stato. Diventano, anzi, un fastidio, dei rompicoglioni, che vorrebbero accentrare le attenzioni su di loro.
Un mestiere pieno di soddisfazioni personali il nostro, certo, ma pieno anche di frustrazioni, di periodi di sovraccarico di lavoro e dall’altra costellato da periodi di disoccupazione. Sempre insoddisfatti. Tutto appeso a un sottile filo. Svegliarsi con il pensiero di cosa fare e come fare per risolvere un problema, trovare una idea. Averlo come pensiero presente tutti i giorni, per anni, non è una cosa divertente.
Realizzare questo sito è stato un po’ fare il punto, raccogliere tutto o quasi tutto di quanto fatto, e lasciarlo così, come eredità, almeno fino a quando questo sito sarà in funzione.
Il mio scrivere nel diario, in questo diario di bordo di questa nave un po’ alla deriva che viaggia nell’Oceano tra presente e passato, nel tentativo di lanciare ancore, mettere boe di segnalazione per tracciare un passaggio, lasciare bottiglie con messaggi, è un mio mezzo per non scollegarmi dal mio vissuto e nello stesso tempo affrontarlo. Ed anche un mezzo per non cancellare tutto quanto avvenuto. Tracciare sentieri, modi per ritrovare persone e cose. Segnali.
Per aspera ad Astra.