Tatuaggi

I’ve been waiting for a guide to come and take me by the hand
Could these sensations make me feel the pleasures of a normal man?
Lose sensations, spare the insults, leave them for another day
I’ve got the spirit, lose the feeling
Take the shock away
” (Joy Division, Disorder)

Superficial assholes. Le ragazze bene del liceo. Le feste. I fichetti con i giubbotti della squadra di football. Gli intellettualini progressisti. Un campionario di coglioni utili per testare gli assorbenti. Le feste al Covo a Santa, l’ecstasy, i panetti sotto la sella del motorino. I cattivi ragazzi. Il primo tatuaggio fatto al porto di Malta, l’ago disinfettato con alcol e fiamma. Il dolore sulla pelle della schiena. Un simbolo per entrare nella tribù. Nessuna moda come oggi, nessun primo imbecille che si tatua l’avambraccio senza sapere neanche il motivo, “perché è bello”. Niente fiori, draghi, fumetti, scritte del cazzo. Nomi di figli che ti odieranno. Pochi erano tatuati e pochi li portavano senza essere considerati marchiati. Ex detenuti, sottoculture urbane, tossici. Marinai mai pervenuti a Milano. Tatuarsi come segno di appartenenza. Come elite stracciona di pirati senza isola del tesoro. La punta della stilografica lacera la carne spugnosa dell’interno labbra. Il sangue copioso. Il mio segreto. Oggi la buona borghesia si tatua il collo. E il povero sfigato imita la malavita coi soldi. Lacrime sotto l’occhio per uno zero di anni che non hai mai fatto.


“Cosa significa quel tatuaggio”?

“I torti subiti, il male fatto, gli amori finiti”.

“E quella rosa?”

“Un ricordo bello e prezioso da tenere protetto, sotto vetro, dall’incomprensione e dall’oblio”.

In realtà non uso incomprensione e oblio, perché non conoscono il significato delle parole. Uso termini più semplici, diretti. Odio è una parola conosciuta. Così come amore. Massimo fa domande, oggi è più spavaldo, ha imparato velocemente cosa significa intervistare qualcuno. E’ uno dei pochi sempre presente. Gli altri, appaiono e scompaiono.

Qualcuno combina altre cazzate e viene riportato in strutture di semidetenzione. Altri non hanno voglia, semplicemente, di interagire. C’è chi si racconta e chi tiene tutto dentro. O semplicemente c’è chi non è abituato a raccontare, parlare, immaginare. Sono tutti minorenni e trovare in loro una luce di speranza nel futuro, a volte, è veramente difficile. Non sono capaci di immaginare, alcuni. Non glielo ha insegnato nessuno.

Eppure sono ingenui, ancora bambini alcuni, nonostante l’aver commesso dei crimini. Si vergognano di parlare. Riescono a malapena a leggere quello che scrivono. Dov’è finita la spavalderia del coltello, il saper colpire col pugno, se necessario, per ristabilire un ordine dato dalla gerarchia brutale dell’uomo sull’uomo?

Quando Massimo si sveglia vede un soffitto bianco. Lo stesso soffitto da quattro mesi. Un tavolino, due letti, un armadio. Cambiando l’ordine di apparizione degli oggetti la stanza non cambia. Un armadio, un tavolino, due letti. Il soffitto bianco. 15 metri quadri. Pena alternativa al carcere. Casa sua per nove mesi più un anno e mezzo di messa in prova. Un chilo di cocaina pesa tutto quel tempo. Me la immagino così la sua stanza.

Massimo ha un rosario con un Cristo in plastica che porta al collo, esposto sopra la maglietta. Non una dichiarazione di fede ma un talismano portafortuna. “Magari fosse la volta bona” dice, quando si guarda allo specchio prima di entrare in sala mensa a fare colazione.

Davanti a questi ragazzi c’è un maneggio con altri ragazzi della loro età o più piccoli che vanno a cavallo e fanno il bagno in una piscina. Io guardo da una parte e dall’altra, ogni tanto. E sto nel mezzo. Non ho nulla, nessuna proprietà, come loro, ho vissuto e giocato a carte vero, girato il mondo, vero anche questo. Io ho vissuto e immaginato. Ho perso un bel po’ di mani a carte, pure, non tutte per colpa mia.

Nello stesso tempo sto dall’altra parte, con quelli che fanno equitazione. Io posso spostarmi sui due lati.

“E tu, che tatuaggi hai?” gli chiedo. Massimo ha un tatuaggio sull’avambraccio. L’ha dedicato alle sue due sorelle. E poi ha sullo stomaco tatuata una mano con una pistola. L’unica cosa violenta che ha Marco guardandolo, con i suoi occhi azzurri, il cappellino un po’ tamarro di Dsquared2 , i capelli arruffati che non si vuole tagliare fino a quando non rivedrà il suo barbiere di fiducia e il suo sogno di andare in vacanza a Barcellona con la fidanzata, “appena esco da qui” dice, è quella cazzo di mano che impugna una semiautomatica. A questo ci si potrebbe aggiungere quelle orrende canzoni neomelodiche napoletane che sono, da sole, un attentato alla genere umano e che spopolano, insieme alla trap, nelle periferie romane. E non solo.

Io e Marica stiamo parlando con loro di che cos’è il viaggio, cosa significa viaggiare e dove vorrebbero andare. Devono scriverlo e poi leggerlo davanti al microfono. Tutto materiale che finirà in un progetto di podcast. Qualcuno scrive che non lo sa cos’è il viaggio, perché non ha mai viaggiato in vita sua. Qualcuno non è mai neanche andato al mare, che sta a circa quaranta chilometri da dove ci troviamo, Roma, la capitale. E se c’è un posto dove vorrebbe andare, è in Bosnia, una sorta di El Dorado, dove molti vorrebbero tornare, una terra immaginaria gitana dove ritrovare traccia del loro passato, un posto “dove non c’è il mare ma tante piscine” e “d’inverno la neve”.

Qualcun altro vorrebbe solo viaggiare per tornare al campo in bicicletta e dormire. Altri proprio non riescono ad immaginarsi un altrove. Non esiste.

“Com’è che hai una ragnatela”? chiede sempre Massimo. “Dove abito io significa che sei stato dentro”.

Me lo avevano già chiesto a Donetsk, anno 2015. Io, Vasiliy, Luca e Cesare al Giamaica, un pub sotterraneo installato all’interno di un casermone popolare. Quella sera c’è una sorta di rock contest e un sacco di ragazzi e naturalmente un fiume di vodka. Fuori, a pochissimi chilometri, c’è la guerra. Dentro, la vita. Il coprifuoco è già sceso ma la festa continua. La festa deve continuare. Alcuni di quei ragazzi magari sono anche già stati a sparare al fronte. Ci sono uomini più adulti, come noi, in mimetica a bere tra di loro. Cesare finisce in bagno a vomitare tutto. Lo lascio accasciato su una sedia, continuando a bere shot di vodka al bancone e facendo un gioco con bicchiere e cannuccia. Devi andare più veloce del barista che versa nel bicchiere, portando a zero il contenuto. Più indugi, più il bicchiere non si svuota, più bevi vodka.

Barcollo cercando di riprendere malamente con la videocamera una cantante molto grunge sulla pedana. Usciti fuori a fumare, un tizio mi chiede se ero stato in carcere per via del tatuaggio. Gli dico di sì, omicidio. Lo guardo dritto negli occhi per qualche secondo, freddo. Poi accenno un sorriso. Ha gli occhi truccati. Come una matita per gli occhi. Non per mode Emo, ma perché lavora in miniera. Di tutto il corpo, quando esci dalle viscere della terra pieno di carbone, sudato, respirando l’aria fresca a pieni polmoni, quando ti togli quella pesante tuta da lavoro e l’elmetto e ti metti sotto la doccia bollente, l’unica parte dove rimane il carbone è sul contorno degli occhi. Quando giri per il Donbass e dintorni lo vedi subito chi lavora in miniera e chi no.

In quei giorni finii un pomeriggio in un cerchio magico a forma di Svastika solare in un bosco, con un gruppo di separatisti filorussi pagani, invocando il Dio Rod, ma questa è un’altra storia.

Questa invece termina in un casolare di Pisky. A circa 500 metri c’è l’esercito ucraino. Il ‘Georgiano’, il comandante, ossuto, la faccia spigolosa, barba nera e pelle scura, gli occhi spiritati e suo figlio, che avrà sedici anni più o meno, ci mettono un Kalashnikov in mano e spariamo qualche colpo a un bersaglio di compensato, a pochi metri di distanza. Quelle cazzate che devi fare per conquistarti la fiducia di uno che sa valutare una persona solo se è capace di imbracciare un fucile correttamente senza farsi slogare una spalla col rinculo. Ogni tanto tendiamo l’orecchio quando si sente il colpo di mortaio partire dalla parte avversa. Qualcuno conta i secondi, nulla. Altre volte scatta l’ordine di correre in una trincea coperta, il colpo sibila sopra le nostre teste e cade da qualche parte. Loro dopo andranno a sparare con il lanciagranate sulle postazioni ucraine, io mi fermo a un gabbiotto del capolinea degli autobus trasformato in checkpoint militare.

Fumo sigarette nervosamente guardando un punto fisso nel nulla. E aspetto.

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