3 – In treatment

Quando sei inferiore in tutto, se puoi ritirati (Sun Tzu, l’Arte della guerra)

Siamo arrivati a quota trenta sedute. Un piccolo pezzo di strada. Eppure mi sembra di aver percorso già centinaia di chilometri in un tunnel spazio-temporale. Un viaggio tra passato e presente, questa volta, partito da un asteroide entrato in collisione a cavallo tra questi quasi due anni di pandemia.

Un viaggio che ha un costo, sia materiale che spirituale. Un viaggio questa volta non fisico. Ma questo non significa che non sia altrettanto faticoso o interessante.

L’immagine che ho usato in evidenza è di un quadro di Michail Aleksandrovič Vrubel, Lillà. Si trova alla galleria Tretyakov di Mosca. Ci sono stato ad agosto 2019, una mattinata intera. E poi c’è ‘Il ratto di Europa‘, di Valentin Serov. Questo quadro, insieme a ‘Il demone seduto nel giardino sempre di Vrubel’, è tra quelli che più mi ha colpito…il viso vagamente asiatico, Europa, un mito e una realtà. Una bellezza primigenia, tellurica. Una bellezza che dà origine al mondo.

Non sono un esperto di arte, mi interessa solo la trasmissione di una sensazione. E questo mi ha dato.

Avevo appena finito un reportage per la televisione svizzera, sulla repressione di alcuni movimenti religiosi e l’esclusione dei candidati dell’opposizione alle comunali di Mosca. Anche in quel viaggio passai, una notte, da un movimento di spazio a uno di tempo.

Poco fuori Kimry, sulla sponda sinistra del Volga, ho dormito in una fattoria dispersa nel nulla, in mezzo ai boschi. Era ancora tutto in legno. L’erba alta, verde, nascondeva rottami scrostati di auto e mezzi agricoli in disuso di epoca sovietica. Le rovine di una chiesa ortodossa, poco distanti. Le guglie ancora parzialmente intatte. La natura aveva ripreso possesso del luogo, incorniciando e avviluppando la chiesa in un cuscino impenetrabile di rovi e piante. Un ex villaggio contadino abbandonato da tempo. Unico superstite, una vecchia fattoria destinata al recupero di uomini e donne segnati dalla vita.

Dormimmo in una stanza dove tutto sapeva di passato. Cianfrusaglie, vestiti appesi, vecchi stivali da lavoro. L’odore del legno umido e stagionato insieme. Le coperte lise. Le molle dei letti esauste dal peso di chissà quante persone venute prima di noi. C’erano essenze di vite precedenti in quella misera catapecchia. Un vecchio divideva la stanza con me, il cameramen e Vasiliy, il fixer. Era già a letto quando siamo arrivati, ha aperto gli occhi e non ha detto una parola. E la mattina, quando l’alba ha incominciato a rischiarare la stanza, è uscito prima di noi.

Oggi quel ricordo strappato in terra russa, mi riporta a un altro ricordo: mia nonna, Jolanda, quando mi portava dai suoi genitori adottivi, in una cascina nelle campagne del milanese. Era stata abbandonata in un brefotrofio. Figlia illegittima. Incontrò solo una volta nella sua vita sua madre, solo per darle un volto. Non la volle più vedere. In quella cascina tutti avevano facce da contadini, ingenue, con quel misto di stupore e semplicità stampato davanti ai comuni fatti della vita. Le mani rovinate dal lavoro. La bottiglia di rosolio sul tavolo, i vestiti stampati a fiori, ogni cosa era semplice, modesta, vera.

Ci svegliammo poco dopo, nel freddo della brina, il sole avvolto da una nebbia gemella a quella delle campagne lombarde. Facendo colazione con pane nero e una specie di latte solidificato, simile al burro. Poco distante un ex alcolista mungeva già da qualche minuto le vacche.

Odore di urina, feci e paglia umida. Narici sbuffavano nuvole di aria calda, condensata, nel freddo della stalla.

Ieri in analisi discutevo o meglio, parlavo a ruota libera del potere della scrittura. Il potere della scrittura come mezzo per comunicare prima con sé stessi, stabilire un contatto con il profondo, e poi con il resto del mondo. Una sorta di ponte. La cosa più difficile non è parlare agli altri ma parlare a sé stessi.

Una delle cose che da sempre, raccontavo, mi ferisce profondamente, è la chiusura, la rottura di una comunicazione. Le chiusure avvengono per tanti motivi (allontanamento, morte, disinteresse etc), ma quando raggiungi un grado di fiducia con qualcuno, quella rottura della comunicazione diventa per me un incomprensibile atto. Perché a quel punto hai una forte condivisione di qualcosa di profondo e che senso ha perdere tutto quanto raccolto fino a quel momento?

Ma di ogni cosa che facciamo, ogni gesto, ogni parola, c’è una conseguenza. Di ogni pensiero. Di ogni caduta verso gli inferi, di ogni amore perso, ogni cedimento, ogni lama presa tra le mani. Di ogni parola violenta, disinteressata, di derisione o di comodo. Di ogni indifferenza. A volte non siamo responsabili di quella rottura. Altre sì. La comunicazione non è mai univoca ma condivisa. Ho imparato però che si dovrebbe sempre tenere una porta aperta, altrimenti tutto è perso e nulla avrebbe senso di quanto fatto prima. Castelli di carta franati al primo battito d’ali di una farfalla.

Il nostro libero arbitrio è così effimero da attraversare indenne la blindatura di una cassaforte. Lavorare sui propri errori e sulle proprie esperienze passate è un mezzo per migliorarsi.

Ma il concetto è molto più facile a dirlo che a realizzarlo con coerenza.

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