La macchia

Quand’era piccolo gli piaceva appiccare il fuoco, creare falò, incendiare. Ha avuto questo ricordo da poco. L’immagine di lui che guarda il fuoco rapito dalle fiamme e un pezzo di plastica scoppietta schizzando via dal centro della brace ardente e, in volo, arriva sulla mano di sua sorella. Il segno le era rimasto poi, negli anni, di quella plastica fusa che l’aveva leggermente ustionata.

Sempre meglio che alla tizia del campeggio sul Garda dove si ritrovava ogni estate, al quale il fratello più grande, con un tiro di fionda, le aveva portato via un occhio. O sempre meglio del pizzaiolo, un vecchio bastardo con le mani pesanti che un giorno si prese una coltellata diretta al cuore da un minorenne che aveva schiaffeggiato. Lo mancò per un soffio, tagliandogli un’arteria del braccio. Quando i Carabinieri arrivarono portarono via un gruppo di ragazzini. I più piccoli riuscirono a scappare coperti dai sedicenni, nelle vie laterali del campeggio, nascosti dal buio. La prima rissa. Il sangue un po’ dappertutto, l’eccitazione del combattimento, le pacche sulle spalle nella sbornia di esaltazione.

Alla tele davano ‘Un mercoledì da leoni’. Aveva 14 anni. Ivana, grandi occhi castani e capelli neri come il petrolio, il primo bacio con la lingua. Lei ne aveva sedici e una conoscenza del mondo molto più vasta del suo ridottissimo universo. Due iniziazioni importanti nel giro di una estate. Ivana durò pochi giorni, il suo mondo la richiamava verso sfere di interesse più adulte, lui iniziò a incidere il suo cuore con un coltello.

Una piccola macchia chiara nell’incavo del dorso della mano, tra indice e pollice. Marco la nota quando incontra sua sorella al bar. Sono passati decenni e la macchia sta ancora lì. Lei sta bevendo un succo di arancia. E’ mattina. Il tram 19 passa davanti alla vetrina del bar. Quando si salutano, in maniera quasi formale, il suo fiato è alcolico. Grappa o vodka. Lui non le dice nulla. Non è quello lo scopo dell’incontro. Un tentativo di riavvicinamento. Ma la bottiglia è un ostacolo. La dipendenza è un ostacolo. Le promesse mancate sono un ostacolo. I tentativi di suicidio sono un ostacolo. Le bugie. Glielo deve ma sa che sta già per fallire, di nuovo.

A Marco manca Milano. Manca passeggiare per il centro, vagando a caso per le vie. Il naso in alto a guardare i palazzi signorili. Immaginare famiglie a tavola, soffitti alti, bianco il colore predominante, cornici d’argento su fotografie. Sono felici?

E poi mancavano quei pomeriggi spenti nei bar, l’umanità persa che lentamente si trasforma con il calare della notte. Gli animali escono con il buio. Lontani anni luce dai cenacoli intellettuali. Persone che si sbrodolano addosso masturbandosi davanti a uno specchio. La forma. Il parlare senza senso di massimi sistemi. La pedanteria. Le convenzioni. Repliche di comportamenti sterili.

I maestri Zen di disperazione sono seduti sullo sgabello di un bar. Depressi, come tutto il resto del mondo. Infelici. Donne mescolate nei loro dolori. Uomini irrequieti, perdenti in partenza con loro stessi. Chissà se sua sorella era cosciente di far parte di quel mondo disperso. Per Marco è facile dare patine letterarie, alte, a ciò che, in fondo, non lo è. La finzione maschera.

Eppure quel mondo a un certo punto Marco lo ha allontanato. La fascinazione ha lasciato il posto a una sottile forma di disgusto per la rinuncia alla lotta per la sopravvivenza. E’ quello il suo centro dell’universo. Una continua costante lotta, seppur inutile, come quel testardo di Sisifo. Cicli infiniti di ripartenze.

Quando l’ha rivista era stesa su un letto di metallo dentro un ospedale, a Rozzano. Lo squallido hinterland milanese dal quale tutti erano scappati. Vene in trasparenza su una pelle diafana. Un lenzuolo a coprirla. La macchia bianca sulla mano Marco non l’ha cercata. Sentiva troppo freddo.

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