Leggo bacheche su bacheche di persone che si dispiacciono per la morte di Amedeo Ricucci. Anche gente che in vita lo ha sempre ostacolato professionalmente. I ‘coccodrilli’ tirati fuori per l’occasione. Basta cambiare il nome e vanno bene un po’ per tutti. Molte di queste persone con lui non hanno mai avuto rapporti profondi, di amicizia, quella vera. E che lui considerava delle teste di cazzo. Il che non ti trasforma da testa di cazzo a brava persona in automatico, se scrivi un post alla sua memoria o commenti o fai un comunicato stampa. I panni non si possono mai lavare negli stagni sporchi, perché poi l’acqua puzza e puzzano i vestiti, quando asciugano. D’altra parte Amedeo aveva un pessimo carattere, per usare un eufemismo.
L’amicizia che avevo con lui è quella che ti faceva trovare il sabato pomeriggio a casa sua a farci un gin tonic dopo l’altro, ad andare al mare a mangiare, a passare il Natale insieme. A sentirci quasi tutti i giorni. Per anni. A progettare missioni di lavoro, vacanze, dividere stanze, cibo, alcol, a raccontare cose private dei nostri passati, tra uomini, a condividere la paura di morire sotto un bombardamento. Sto cercando di trovare le parole giuste, di pesarle una dopo l’altra, ma è difficile perché provo un po’ di rabbia nei tuoi confronti, Amedeo.
A molte mi annoiavi, perché eri un disco rotto suoi tuoi cazzi di lavoro e sul tuo ego professionale ferito, e io mi chiedevo perché un giornalista affermato che sta al Tg1 dovesse mai lamentarsi. Perché non ti bastava mai e perché volevi di più invece che goderti al meglio il tempo che ti restava. Mi intristiva vederti così. Ti eri bruciato tutto, tutta la vita o quasi, per il giornalismo. E quello che sto scrivendo non è bello, è triste, ma è la verità. E quando sei passato da Rai3, da La storia siamo noi al Tg1, le cose sono peggiorate. Ti sentivi spesso incompreso, demansionato. A dover fare i conti con raccomandati vari e incompetenti. E poi eri roso dalla competizione. Una malattia che molti di noi hanno, perché fa parte del Dna di chi fa questo mestiere. Perché questo è il lato terribile della nostra vita, perché gli altri vanno avanti quando non ci sei e diventa sempre più difficile trovare qualcuno che ti aspetti a casa quando rientri.
Amedeo aveva una famiglia, quella vera, che sta in Calabria in parte, e in parte a Roma. Aveva le sue nipoti, aveva delle sorelle, sua madre. E poi per diversi anni c’eravamo noi. Io e Antonella. E poi Anna, Michela e l’altra Michela, e poi i suoi amori, rincorsi fino all’ultimo, forse per recuperare parte della sua vita persa dietro ad altro. Amedeo aveva una gatta che lo aspettava a casa.
Se oggi sono quello che sono, professionalmente parlando, in buona parte lo devo a te. Siamo stati in giro insieme dal 2008 al 2016. Libia, Iraq, Tunisia, Siria. Tanti viaggi. Tante avventure. Ho imparato a lavorare come giornalista di guerra grazie ai tuoi consigli, osservando il tuo modo di lavorare, la tua cocciutaggine. Tu e i tuoi toscani puzzolenti. Spesso litigavamo. Spesso discutevo con te. A volte non mi piacevano certe tue metodologie di lavoro, ma tu eri Amedeo Ricucci e io potevo solo imparare da te. Era un rapporto un po’ strano, un po’ come quello tra padri e figli. Un rapporto conflittuale che poi è arrivato alla rottura, uguale a quei figli che si scrollano di dosso l’autorità dei padri troppo presenti nella loro vita, troppo importanti, perché devono e vogliono camminare con le proprie gambe. E i padri non accettano e i figli vedono ogni gesto come interferenza. E si spezza qualcosa.

Nel 2016 in Iraq abbiamo avuto il primo distacco. Il motivo ancora oggi non l’ho compreso pienamente e non lo saprò mai perché sei morto. Non lo abbiamo mai chiarito veramente, perché tu hai e io ho un carattere di merda, duro, spigoloso. Due caratteri simili. Ora te lo posso dire. E non è importante chi ha iniziato, il perché e cosa, ma è successo. E poi ti sei allontanato da tutti noi. E noi da te.
Credo che la tua malattia, che non è stata ‘fulminante’, come qualcuno ha scritto, ti abbia portato sempre di più ad isolarti in questi anni. E ti abbia anche un po’ incattivito. So cosa dicevi in giro di me e mi è dispiaciuto sentire certi tuoi commenti. Non c’eri quando è morta mia sorella, e io non c’ero quando sei stato operato. Ma tutto questo adesso non è importante, perché adesso non ci sei più e io non posso che prendermela con me stesso e con te. Perché io non ho fatto un gesto per parlarti e tu neanche. Perché siamo due persone irascibili, orgogliose. E’ andata così. Spero solo che tu non abbia sofferto troppo. Ci sono tanti modi per morire e noi sogniamo sempre quelli più romantici anche se poi, la maggior parte delle volte, non succede.
Ciao Amedeo. La prima cosa che avrei voluto dirti se ne avessi avuta l’occasione è che ti ho voluto veramente bene, che ti ho sempre voluto bene come un fratello più grande, più di un amico, a volte come un padre, e che ti ho odiato anche, ma non potrò farlo perché sei morto. E ora non posso più parlarti e Roberta non mi romperà tutte le volte dicendomi “jamme, eddai fate pace”. E questo è un altro conflitto irrisolto che mi porterò dietro nella mia vita. Uno in più.