2 – In treatment

Spesso il male di vivere ho incontrato
era il rivo strozzato che gorgoglia
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato
.

(Eugenio Montale)

Il distacco. L’insensibilità della statua, la libertà del falco, la lontananza della nuvola. 

Sono sdraiato sulla poltroncina blu dello studio, con i braccioli e la struttura in legno chiaro. Ormai è diventato un appuntamento fisso. Due volte la settimana. La ritualità si è consolidata. Un confessionale laico per me che amo la sacralità del rito ma non i luoghi di culto, soprattutto quelli cattolici. Mi ricordano la costante presenza della morte. Sono affascinanti e angoscianti nello stesso tempo.

Il cerimoniale prevede un sorriso, poi io che mi adagio sulla poltroncina, le gambe allungate su un poggiapiedi. Partiamo. 

Il mio flusso spontaneo di parole ultimamente si è rallentato. Chiedo a me stesso, a voce alta, il motivo di un mio ritorno a una sorta di neutralità emotiva, di difficoltà nel tirar fuori emozioni. Un discorso lungo. Una neutralità che non riesce a farmi apprezzare momenti di gioia e mi lascia impassibile davanti a quelli dolorosi. Da sempre così, In questo si è preservati da ogni fluttuazione, ancorati al terreno. Nè venti o tempeste e colpi di maglio possono muovere.

Un blocco che viene lasciato libero di fluttuare solo in rarissimi momenti. Solo a causa di pochissime situazioni o persone. Magnetismi tellurici.

Dipano i racconti sul filo di un gomitolo dove i nodi di riferimento sono molto spesso figure femminili.


E’ una mattina afosa quella davanti all’ospedale al-Shifa. La prima esplosione. Una palazzina, a qualche centinaio di metri. Ci rifugiamo in una specie di garage. Non sappiamo da dove e quando colpiranno ancora.

Il fumo nero si alza verso il cielo, poi le urla e l’arrivo di macchine, una dopo l’altra, che scaricano i feriti. Io filmo tutto. Dal retro di una autovettura estraggono un uomo, lo portano in due. Ha un arto quasi staccato all’altezza della spalla. Delira.

Un vecchio esanime trasportato a braccia. E ancora una dopo l’altra uomini e donne. Il sangue cola per terra tracciando disegni di morte. Le macchine continuano ad arrivare. Un secondo strike arriva nello stesso punto dove sono arrivati i soccorsi. Altre macchine, altre barelle. Altro sangue, Altre urla. Altra morte.

I miei ricordi di quel giorno sono confusi, e si sovrappongo a una notte, la prima che mi ha portato dentro Aleppo, dove lo stesso ospedale aveva il pavimento decorato di frastagliati disegni liquidi, viscosi, mescolati allo sporco e ad impronte di scarpe. Le pile dei cadaveri avvolti da coperte, ammonticchiati come tappeti vecchi a lato dell’entrata. La magia della mia neutralità emotiva si interrompe quando una donna mi urla e io abbasso il mio schermo e la guardo negli occhi. Lei è lì ed è fatta di carne e ossa, come me. 

Hai l’adrenalina che ti pompa a mille il cuore. Non pensi a nulla fino a quando lei, fissandoti, ti strappa quel peso che ti ancora al terreno. E realizzi. Sono solo pochissimi secondi ma bastano perché di tutta quell’esperienza in bilico tra la vita e la morte, non rimane altro che lei, come ricordo, da portarti via.

Rimane solo quella donna.

Ci sono persone che riescono a penetrare i tuoi schermi e non puoi farci nulla. Puoi solo farti accompagnare da loro. Conviverci. Farne tesoro. Fantasmi, amori incompiuti, persone care. Presenze.

Ma tu sei questo, o almeno vuoi provare ad esserlo: il distacco. L’insensibilità della statua, la libertà del falco, la lontananza della nuvola. 


Sto facendo lezione su come realizzare un podcast a dei ragazzi rom di una struttura vicino Porta San Paolo, a Roma. Fuori dalla struttura c’è una donna, seduta su una staccionata. Mi dice che il fratello è morto a Gaza e che era un giornalista. E’ la sorella di Simone Camilli.

Incontri, dettati dal caso, che lasciano dietro di te una traccia di pensiero da elaborare.

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