Sono passati diversi mesi dall’ultima volta che ho scritto. Dicesi blocco dello scrittore, su un foglio bianco. Io la chiamerei chiusura del fuoco dell’anima. Sigillare una giara immersa in un lago di nebbia. Il suono sott’acqua. Sott’acqua ogni cosa è ovattata. Sei isolato, lontano, nel tuo mondo. Intorno acque placide, calme, rassicuranti. Calde.
Il mio monitor ha un piccolissimo segno. Dovrei usare una lente per vedere la sua forma. Questione di millimetri. Però qualcosa lo ha intaccato. Non ha raggiunto la parte profonda dello schermo. Saltuariamente lo gratto pensando ci sia qualcosa attaccato, poi mi rendo conto che è sempre quel graffio. Che non andrà mai via. Lo specchio riflette qualcosa che non conosco. La mia mente vede quello che vuole vedere, non quello che è.
Noci, caramelle, cioccolatini, torroni. Degli stucchevoli pezzi di zenzero ricoperti di cioccolato. I rimasugli di un altro Natale passato. ho cinquantuno anni adesso. Però non ho nessun terrore o ossessione della morte, e questo è un bene. Non come il professor Jack Gladney e la moglie Babette in ‘Rumore bianco’ di Don DeLillo. Nessun Dylar. Nessun evento scatenante.
La zona di guerra mi aspetta nuovamente e so che devo tornare indietro per sistemare delle cose. Quali? Non è importante cosa, è importante come. Mi servono altri pezzi di vita da approfondire. Sto scrivendo un libro su questa avventura prima che tutto perda forma. Il mio bisogno di sapere cosa trasmetto con la scrittura. Toccante. Potente. Profondo e convincente, dice l’editore. Dipende quali anime tocchi dentro uno dei tuoi innumerevoli corpi.
Pezzi di zucchero. Il carbone nero della Befana. Non ho paura, non sento nulla. Una grande quiete ha sostituito il posto dell’agitazione e del senso di sofferenza estremo del vivere la quotidianità che avevo in precedenza. Il tempo scorre così veloce che l’ieri sembra appena trascorso poco dopo l’oggi. E l’oggi è il 2023. Così è ovunque. In una trincea, in una casa di Bakhmut come quella di Galina. Non c’è più nessuno nel suo palazzo e lei dorme negli scantinati di un asilo. Nataliya mi scrive nel suo italiano un po’ bambino che la gente vive sottoterra e che nessuna casa è sopravvissuta.
In una cittadina sul mare negli Stati Uniti, dove le persone vivono nei loro micromondi fatti di strade uguali a mille altre strade e case uguali a mille altre case. Nelle Filippine tra i coltivatori di alghe, immersi insieme ai Sama-Bajau, gli zingari del mare. In una fossa scavata nel deserto in Siria, dove riposa uno dei santi. Il tempo è uguale ovunque ma non ovunque ha gli stessi ritmi.
C’era un quadro in casa, una litografia con un volto e uno scritto di Garcia Lorca.
Quiero dormir un rato,
Un rato, un minuto, un siglo;
Pero que todos sepan que no he muerto;
Que haya un establo de oro en mis labios;
Que soy un pequeño amigo del viento Oeste;
Que soy la sombra inmensa de mis lágrimas.
Se chiudo gli occhi lo vedo ancora, sulla carta da parati carta da zucchero (era così quel colore?). I mobili bianchi dagli angoli smussati, nessuna linea retta. I portagioie, i comodini. Un grande crocifisso moderno, artistico, forse di vetro o qualche resina plastica all’interno della quale si trova un Cristo dalle fattezze lontane, bidimensionale. Il libro tibetano dei morti. La poesia di Lorca, ‘Gazzella della morte oscura’, l’avrò letta un milione di volte.
Ho con me il profumo dei fiori. Una rosa rossa e dei peperoncini da composizione. E’ un presente per il mio compleanno. Davanti una strada. Siamo di nuovo in viaggio e le migliaia di chilometri si trasformano in fiocchi di neve e luce. Viaggiare via terra riporta l’osservazione sul paesaggio quasi a dimensione umana. Lo puoi fare solo stando a terra, anche se distratto da pensieri e lavoro. Tra poco saremo di nuovo al confine tra due mondi.