Il treno è pieno di gente. Una parvenza di normalità, anche qui, mentre nei monitor del vagone passano pubblicità e spot sulla guerra, molti dedicati ai civili. Uno è a fumetti e fornisce indicazioni sulle norme di comportamento da tenere in caso di bombardamenti, ferimenti e combattimenti. ‘Stai lontano dai carri Zeta’, dice una di queste. ‘Non stare in gruppo’, ‘attento a quello che dici’. Il nemico ascolta. Non ci sono i deserti e le dune o città caotiche di un altro mondo, legate a modi di vestire e culture e lingue differenti. Questa è Europa. Lei su un toro bianco che viene rapita. Europa, la madre.
Nel treno ci sono diversi uomini in divisa. La donna accanto a me guarda canali telegram dove appaiono notizie di bombe e video di incendi ed esplosioni. Sta guardando la schema di un missile da crociera. Dall’etere mi rimbalza Berlusconi che si fa gli auguri per il suo diciassettesimo nipotino, mentre il treno procede verso est, verso la porta dell’inferno russo. Un treno nuovo, con bagni con sapone, disinfettanti, copriwater usa e getta, carrozza bar. Siamo guerra e sto in una carrozza bar con portabibite di cartone e bicchieri di carta riciclabile verdi. Il treno viaggia a 136 km orari. Due bambini ridono giocando tra di loro.
Europa era una principessa fenicia, figlia di Agenore e Telefessa. Zeus se ne invaghisce e si trasforma in un bellissimo toro bianco, si avvicina alla fanciulla e si stende ai piedi, mansueto. Europa gli sale sul dorso e Zeus la rapisce portandola, attraverso le acque del Mediterraneo, sull’isola di Creta. Oltre a tre figli, il padre degli Dei lascia tre doni ad Europa: Talos, un gigante di bronzo guardiano di Creta, Lelapo, un cane talmente veloce che è destinato a catturare qualsiasi cosa e un giavellotto dalla mira infallibile.
Mentre scrivo in questa stanza di un appartamento di Kharkiv, ritorna lei, Europa, nella mia mente e la ricollego a quanto avviene oggi. La Russia come Zeus, Europa come Ucraina. L’impossibilità di averla se non con il sotterfugio, il rapimento.
C’è una città completamente al buio. Le persone la sera si muovono puntando le torce dei cellulari a terra. Fino al coprifuoco. Poi tutto sparisce. Vivere al buio appena scende il sole, lungo i viali e le strade di Kharkiv come di qualsiasi altra città ucraina. Non solo per la mancanza di elettricità e per il coprifuoco, ma anche per la paura di essere bombardati dall’artiglieria e dai droni.
C’è una cosa che è simile però ovunque. La voglia di vivere. La vita deve continuare. I negozi devono restare aperti, i bari a orari ridotti così come i ristoranti. Le persone muoiono e vivono allo stesso tempo. Non riesco a prendere sonno. Mi interrogo sul pensiero degli altri e sul mio. Ma il gioco dura poco. Perché l’altro gioco è sempre quello di spegnere il pensiero e diventare una spugna. Osservo ma non esisto. Guardo ma non mi vedo.
P’yana Vyshnya (la ciliegia ubriaca) si trova alla fermata della metro di Maidan Konstytutsii. Servono solo liquore di ciliegia, nella versione calda o in quella fredda. Andrii arriva in bicicletta. Ha ripreso a lavorare in azienda. Producono armature medievali, costumi di scena, abbigliamento per lo scherma storico. C’è un collega con lui. Quando avevo incontrato Andrii per la prima volta, in un vagone della metropolitana trasformato in appartamento, dove vivevano decine di persone, era messo male. Era febbricitante, disperato, aveva paura. Stavano un po’ tutti male in quei vagoni. Faceva freddo, molti erano malati, ma era meglio rimanere lì che salire in superficie, dove tutto o quasi era distrutto. E dove potevi morire in un attimo. E poi arriva un altro volto conosciuto. E’ un ragazzo che avevo incontrato, anche lui dentro quel vagone, insieme a sua moglie, i suoi figli e i suoi cani e gatti. Ha un master in matematica e si occupa di finanza.
Il primo giorno che sono arrivato a Kharkiv mi sono trovato davanti a una scena apocalittica. Ero in macchina con Andrea. Ci siamo fermati lungo il viale di Piazza della Costituzione, era tutto innevato e sopra la neve detriti, pezzi di metallo squarciati, vetri, semafori divelti. Era tutto esploso, in pezzi, in rovina. Un silenzio assurdo rotto solo dai nostri passi sulla neve, in mezzo alle macerie. Acqua grondava fuori dalle scale di un negozio di abbigliamento. Gli allarmi che suonavano in continuazione. Centinaia di finestre e vetrine ridotti in mille pezzi. Era primo pomeriggio ma non c’era anima viva in giro. Kharkiv era una città fantasma. Eravamo in mezzo alla strada osservando la distruzione completa. Silenzio totale rotto solo dagli allarmi e dalle nostre voci. Dopo qualche centinaio di metri abbiamo visto due uomini sbucare da una farmacia, passando attraverso la vetrina in frantumi. In mano avevano un registratore di cassa e un computer. Sciacalli.
Ricordo una macchina della polizia. Nevicava, il freddo ti entrava nelle ossa. Andrii ha vissuto mesi, sottoterra. Ogni stazione della metro ospitava centinaia di persone. Tra le tante cose che fa, ha anche una passione smodata per il windsurf. Siamo all’aperto, in piedi, con un tavolino davanti sul quale appoggiamo i bicchieri di carta pieni di liquore caldo. Le macchine scorrono davanti a noi, sul viale. Faceva pratica sul fiume Donets, a Staryi Saltiv e poi è stato sette anni in Italia. Tra le tante cose ha fatto anche lo stunt-man in uno dei parchi divertimenti che si trovano sul lago di Garda. Anche lì si pratica il windsurf, nella zona di Torbole, dove il lago si restringe. “La prima cosa che faccio appena finisce la guerra, appena vinceremo, è riprendere la tavola”, dice Andrii.