9 febbraio
Kyiv. E’ il nove di febbraio e la neve delle ultime settimane che ha imbiancato strade e palazzi, si sta lentamente sciogliendo. Maidan, la piazza principale, con il suo viale dedicato ai manifestanti uccisi dalla polizia nei sanguinosi giorni del febbraio 2014. Cento, uomini e donne, massacrati in un solo giorno, il 23 febbraio 2014. Una rivoluzione nata pacifica, dove per tre mesi persone di ogni classe sociale e età, sono scese in piazza per non rinunciare al sogno di avvicinarsi all’Unione Europea. Bisogna iniziare da qui per capire questo popolo e l’incredibile voglia di libertà e di indipendenza che in ogni momento, cerca di fare propria, di rivendicare, dimostrare. Viktor Janukovich, l’ex presidente. E’ lui responsabile di quei massacri di civili in piazza. E’ sempre lui che tenta di allontanare l’Ucraina dall’Europa per riportarla sotto l’influenza Russa. Il 23 febbraio 2014 scappa a Mosca. Per gli ucraini inizia una nuova era, ma tutto viene cancellato prima dall’Occupazione della Crimea e poi dalla guerra del Donbas, che divampa alla fine di aprile dello stesso anno. Il monastero di San Michele si trova a poche centinaia di metri da Maidan. Anche qui, la storia del popolo ucraino si scontra con quella russa, e il ricordo del passato si mescola a quello odierno. La cattedrale e il monastero vennero demoliti dalle autorità sovietiche negli anni ’30, ricostruiti dopo il 1991. Sofiya sta guardando un muro della cattedrale pieno di fotografie di soldati caduti lontano, ad est, in questa guerra sporca iniziata dalla Russia e dai suoi alleati locali. Ucraini contro ucraini. A volte fratelli contro fratelli, famiglie divise, l’odio generato da un seme malato, diventato pianta, con le sue radici marce che avvelenano pozzi e terreni, menti e cuori. “Abbiamo guadagnato un altro mese”.
Sofiya è originaria di Severodonetsk, una cittadina del Donbas. Si trova a pochi chilometri dall’autoproclamata Repubblica di Luhansk, entità separatista. Otto anni di guerra combattuta tra trincee e camminamenti, cecchini e bombardamenti. In questi giorni tutti aspettano di capire se la Russia attaccherà o meno, se l’Occidente riuscirà a trovare una mediazione con Mosca. Molti non credono che possa arrivare la guerra. “Questa situazione di stress noi non la viviamo da adesso, la viviamo da anni. Da Maidan, dalla rivoluzione”. Mentre scorre lentamente davanti alle fotografie di duemila e ottocento caduti, uomini e donne, indica un uomo. Si chiama Serghej Gubanove ed è morto il venti maggio 2020 a Trehizbenka, nella regione di Luhansk. A volte basta un accenno, anche se lontano, per far tornare tutto a galla. Sono i traumi che ci portiamo dentro, che seppelliamo sotto cumuli di altri ricordi e di polvere, ma che poi, prepotentemente, tornando di nuovo in superficie. E ci spezzano. Una lacrima riga il suo volto. Non per il freddo pungente, ma proprio per la sofferenza di quel pensiero ritrovato. “Ogni volta che parlo di quel periodo mi tornano in mente i feriti, i morti, il sangue e non riesco a frenare il mio dolore”.
Uliana ha poco più di trent’anni. Divide il suo tempo tra il suo lavoro di interprete, l’arteterapia per i reduci dal fronte e uno studio di pittura. Come tanti si definisce una ‘volontaria’. “Ho imparato a reagire di fronte a determinate situazioni, senza avere paura, da quando ho iniziato a prestare soccorso all’ospedale militare qui a Kyiv. Era pieno di feriti e il personale medico non bastava. Come tanti altri civili mi sono messa a disposizione. E come tanti altri ho partecipato alle proteste a Maidan. Quando è scoppiata la guerra nell’est volevo arruolarmi, ero arrabbiata, furiosa, poi ho pensato a mia madre. Non me la sono sentita di lasciarla da sola”.
13 febbraio
Andrii ha un locale a Dnipro, aperto poco prima della pandemia. Si chiama ‘First Wave’, la ‘prima ondata’, e come altri luoghi, dopo anni di guerra, ha un richiamo al mondo militare dal quale tanti, seppur tornati alla vita civile, non riescono a staccarsi. Poco dopo l’entrata, un muro è ricoperto da centinaia di toppe di battaglioni di volontari e regolari che nel 2014 hanno preso parte ai combattimenti contro i separatisti filorussi. In mezzo campeggia il tridente ucraino, il Tryzub, collegato alla parola Volya, libertà. “Ho combattuto per il mio paese, come tutti. Era giusto farlo, questa è la mia terra”, dice Andrii. Poco prima di partire per il Donbas, per tornare sui luoghi dove ha perso degli amici e dove ha passato mesi lontano da casa, passa a prendere Serghei. Anche lui è un veterano. Si siede in macchina accanto ad Andrii e spesso rimane in silenzio, isolato dal mondo, lontano. Ha un sacchettino di plastica trasparente dal quale ogni giorno a intervalli regolari pesca pillole di forma e colore differente. Dnipro è stata una delle città che ha fornito un importante contributo di uomini e mezzi per combattere gli alleati di Mosca. Nel battaglione Dnipro, fondato dall’oligarca Igor Kolomoysky, molti sono gli ebrei, esponenti dell’importante comunità locale, che hanno preso le armi.
16 febbraio
Il comune di Kyiv ha predisposto la mappatura di migliaia di rifugi e bunker antierei e su Google map gli abitanti della capitale possono verificare dove si trovano i ripari più vicini e anche altre informazioni come ospedali e ricoveri di emergenza. Uno di questi bunker antiaerei si trova proprio sotto la stazione centrale di Kyiv. Superato l’ingresso, prima delle enormi scalinate che portano ai binari, sulla sinistra c’è l’accesso a un lungo corridoio che porta a un bunker particolare. “E’ stato costruito nel 1955 e può resistere a bombardamento aereo o nucleare”, spiega Valeriy Pozeluyko, capo specialista del dipartimento di protezione civile dell’amministrazione del distretto di Solomnaisky. “In questo luogo si trovano scorte di cibo e acqua per circa centotrenta persone per due giorni, perché questo è un bunker con un differente livello di sicurezza rispetto agli altri. In quest’area di bunker simili a questo ne abbiamo settantaquattro e in tutta Kyiv saranno circa un migliaio”. Nel lungo corridoio sotterraneo adiacente al bunker c’è spazio per un altro migliaio di persone. Ana potrebbe essere una di quelle. E’ una pittrice e ha uno studio in un vecchio edificio poco distante dalla stazione. Ana ha partecipato a Maidan quando aveva quindici anni. “Se oggi sono preoccupata? No, non mi sento preoccupata e non voglio esserlo. Io non voglio ascoltare le notizie, perché se lo facessi sarei nervosa tutto il tempo. E vedo che le persone che mi stanno attorno e ascoltano le notizie, specialmente adesso, stanno pensando di lasciare il paese e fare altre cose. So cosa sta succedendo, ovviamente”. A Kyiv non c’è la guerra ma sembra che ci sia. C’è una guerra di informazione, c’è una guerra di opinioni, di sensazioni, di sentimenti, di paure.
Michele, chef del ristorante ‘Il siciliano’, nato a Winthertur, in Svizzera, ma cresciuto in Veneto, sorride quando si intavola il discorso della guerra: “Io la vivo tranquillamente, senza particolare ansia. Qui la vita si svolge normalmente, i locali e i negozi sono aperti e pure il nostro ristorante. Mi arrivano continuamente messaggi preoccupati da parenti e amici dall’Italia, ma cerco di rassicurarli che è tutto come prima, che non è ancora cambiato nulla. Se succedesse qualcosa, se avvenisse il peggio, a me e a mia moglie hanno consigliato di andare in metropolitana, perché sono state costruite alla fine degli anni cinquanta e sono molto profonde. Qui accanto per esempio c’è la fermata di Arsenalna che è la più profonda del mondo, oltre cento metri”
Maidan, semivuota durante la giornata, si rianima verso sera, quando le persone escono dal lavoro e i ragazzi si danno appuntamento nel centro commerciale sotterraneo. La metropolitana sferraglia qualche decina di metri più sotto, trasportando masse di passeggeri da un angolo all’altro della città. Un giorno come tanti altri. Eppure oggi, secondo l’intelligence americana, sarebbe dovuta iniziare l’operazione militare russa.
19 febbraio
A Est, il panorama diventa un susseguirsi di città minori, insediamenti industriali, campi e villaggi che, avanzando verso il confine, sono sempre più grigi e anonimi. Archeologia industriale, case popolari fatiscenti, montagne fatte di scarti di materiale derivante dall’estrazione del carbone. Ricordi di un periodo nel quale l’industria pesante era il punto intorno al quale ruotavano la vita e la morte di buona parte della popolazione locale. A Severodonetsk uno dei viali principali ha sullo sfondo una enorme fabbrica con una ciminiera che sbuffa fumo bianco. Intorno solo palazzine anonime, tutte uguali, tutte scrostate, consunte, cristallizzate negli anni sessanta. Una periferia dimenticata da Kyiv questa, dove le infrastrutture cadono a pezzi, le strade sono malmesse e per chi ci vive c’è veramente poco da fare. Sloviansk e Kramatorsk. Interi quartieri costruiti intorno a enormi fabbriche spesso abbandonate o dismesse. Città fedeli al governo adesso, ma che in passato per alcuni mesi, da aprile a luglio 2014, sono state sotto il controllo dei filorussi. Quando queste città sono state riconquistate dal governo ucraino, i filorussi sono scappati e chi li ha sostenuti ora tace, per non sbilanciarsi. Vige una sorta di neutralità politica in queste zone, dove molti evitano di esprimersi. Kostantin quando è andato a combattere nel 2014 aveva diciannove anni. Originario della regione di Donetsk si è arruolato in uno dei tanti gruppi di volontari che in quel periodo affiancavano le forze regolari. “Non avevo nessun addestramento, dovevamo imparare velocemente o morire”. Una scheggia di metallo l’ha colpito alla testa. Un trauma che gli ha causato conseguenze sia fisiche che psicologiche. Oggi è in un centro che cura le ferite invisibili che in molti, troppi, portano dentro indelebili.
21 febbraio
Il sottotenente indica le posizioni dei separatisti che si trovano a circa cinquecento metri, da un lato e dall’altro del fiume. Shchastia prima faceva parte di Lugansk, una delle due capitali delle cosiddette repubbliche separatiste filo-russe. Ora è divisa in due parti, una controllata dai separatisti, l’altra dai soldati di Kyiv. Un varco militarizzato permette il passaggio dei civili tra le due parti, ma pochi lo attraversano. Fuori da un edificio pubblico un attempato settantenne in divisa militare e un cappello enorme che ricorda i fasti del militarismo sovietico è fermo sull’entrata, forse in attesa di qualcuno, avvolto dalla nebbia. La bandiera ucraina svetta, anch’essa solitaria, su una palazzina. In giro non c’è nessuno. Per raggiungere le posizioni avanzate si deve percorrere circa un chilometro in un bosco, poi attraversare un ponte meccanizzato e dopo una seconda parte di percorso, tra scalini di legno e passaggi coperti, si arriva a un fiume. “Il nemico ha distrutto uno dei ponti e l’altro non è utilizzabile, è minato. Per spostarci dobbiamo attraversare il fiume con una piccola barca con il motore silenziato. Loro sanno dove siamo e noi sappiamo dove sono loro”, dice il tenente. Si fa chiamare Alex, ma non è il suo vero nome. Ci sono dei fori nella rete di mimetizzazione disposta lungo uno dei bordi del ponte. “Ogni tanto provano a colpire la barca”. Oltre il fiume si arriva, attraverso una serie di tunnel, alle postazioni di osservazione. Altri ragazzi, giovani come lui, con gli elmetti coperti da retine mimetiche, appaiono uno dopo l’altro. Nevica a grandi fiocchi adesso, in un silenzio ovattato, e il bianco della neve si mescola al fango e all’acqua marrone che impasta il terreno. Tre gatti stanno mangiando vicino alla baracca della cucina, un piccolo stanzino, come tutte le cose qui, costruite con grezzi tronchi e lamiera. Soldati che sono disposti ad ammazzare e a farsi ammazzare, quando arriva l’ora della battaglia, ma che nella loro quotidianità, nelle piccole cose che si portano dietro dalla loro vita civile, come curarsi di un gatto, ritrovano la loro dimensione umana. Aspettano, come tutti, questo nemico che incombe, minaccioso, oltre i confini in un’aria irreale, sospesa, come questi fiocchi che continuano a cadere coprendo ogni cosa: uomini e persone. Come soldati chiusi in una fortezza che attendono, scrutando continuamente l’orizzonte, l’apparire delle colonne nemiche.
24 febbraio
E’ guerra. Da Nord, da Sud e da Est. I soldati russi entrano in Ucraina dopo il discorso alla nazione del Presidente Putin. Sembra di tornare indietro nel tempo, a periodi della storia che non dovrebbero più ripetersi. Sul continente europeo una democrazia viene invasa militarmente. La capitale, Kyiv, viene bombardata. Sirene che suonano continuamente, i rifugi, il terrore. Immagini che non si vedevano, di bombardamenti aerei in Europa, dalla seconda guerra mondiale. Alla periferia di Kyiv arrivano i carri russi. Qui a Kramatorsk, in Donbas i caccia di Mosca colpiscono l’aeroporto. L’attacco avviene in contemporanea in diverse zone del paese. Nel pomeriggio una terza esplosione. E uno scambio di colpi serrato, durato una ventina di minuti, di armi pesanti. Poi il silenzio. Ad Avdiivka, a sud, sulla linea di contatto con i separatisti, durante la giornata ci sono pesanti combattimenti. Nadijka, trentatré anni, volontaria paramedico di guerra, viene da Lviv, lontano da qui. “Dall’ospedale sentiamo i bombardamenti e le sparatorie che avvengono sulla ‘Prompka’, la linea del fuoco. Mi hanno detto di aspettare qui ma vorrei essere con loro, con i miei fratelli”.
Tre giorni dopo.
Sofya sta andando verso la Polonia. E’ con sua madre. “Non sapevamo cosa fare, stiamo andando via. Ho potuto chiamarti solo adesso. Siamo in viaggio da due giorni, è pieno di macchine, manca la benzina e non si trova un posto per dormire”. Uliana non sa cosa fare. Ha paura ad andarsene. Mi chiede se torno a Kyiv. Ha trovato un rifugio per lei, la madre e il suo cane: un deposito di bare. Andrii ha portato la moglie e il figlio nell’ovest, e poi torna a Dnipro per combattere. Alex l’ho visto in tv. Accompagnava dei giornalisti quando sono arrivati dei missili Grad sulle sue postazioni.
Jacob, la Torah e Dnipro
Jacob insegna la Torah al centro culturale ebraico di Dnipro. E’ un membro attivo della locale comunità ebraica e ha una passione per le arti marziali che porta avanti con dedizione da due decenni. Da quando è scoppiata la guerra è diventato un volontario delle Unità di Difesa Territoriale. Allo Shabbat questa volta sua moglie non c’è, ha avuto una dispensa dal rabbino, perchè anche lei è impegnata come volontaria e tutti i giorni smista scatoloni di medicinali che arrivano al centro di raccolta principale della città che si trova lungo la riva del fiume Dnepr. Il rabbino Shmuel Kaminetsky, capo della comunità, è attorniato da un gruppo di persone. Sta dando indicazioni per organizzare lo spostamento di una settantina di ebrei di Kharkiv, da più di due settimane teatro di terribili bombardamenti da parte delle forze militari di Mosca. La Russia è a pochi chilometri di distanza e tanti hanno parenti dall’altra parte del confine. Questo crea ancora più sgomento nella popolazione, che oggi vede distruggere un pezzo alla volta la propria storia e la sua stessa esistenza da missili e bombardamenti aerei portati dai soldati di Mosca.
Il popolo sotterraneo di Kharkiv
Le esplosioni risuonano notte e giorno, gli scambi di artiglieria tra le posizioni ucraine e quelle russe sono continui. Il fronte deve tenere a ogni costo ma a est i russi avanzano. Il rischio è di dover tenere aperto un secondo fronte. In città la maggior parte dei negozi sono chiusi, ogni attività si è fermata. La benzina è razionata e si possono fare solo venti litri al giorno, dopo ore di attesa, nei pochissimi gestori rimasti aperti. Tutto è immobile a Kharkiv. Anche in metropolitana i treni non si muovono, fermi nelle stazioni, perché i vagoni si sono trasformati in case. Chi non ha trovato posto all’interno, dorme per terra, nei sacchi a pelo, su materassi, stuoie, brande. Ogni fermata è diventata una casa per chi ha paura a dormire in casa e scappa dai quartieri a nord della città. Come quello di Saltivka, che è diventato un inferno, Quando i razzi e i colpi di artiglieria aumentano, quando gli aerei sganciano sui tetti di Kharkiv il loro carico di morte, questi luoghi diventano l’unica salvezza per decine di migliaia di persone. E molti, poi non se ne vanno più. La paura è forte. Le obliteratrici all’ingresso, dove si trova la biglietteria, non funzionano, le porte di queste città sotterranee rimangono sempre aperte e l’orologio elettronico sulla banchina non segna più i minuti che mancano al prossimo treno.
A Kharkiv, come in altre città dell’Ucraina, si muore. Ira, quarant’anni, è un’insegnante di fitness e una designer industriale. “Tutto questo è orrendo. Perché ci bombardano? Il presidente russo è un pazzo. La nostra città era una delle più belle dell’Ucraina, adesso non c’è più nessuno. Vivo sottoterra da due settimane e non posso andarmene da qui perché ho tre vecchi cani, mia madre e mia nonna a cui badare. Qui sotto mi sono portata i miei due gatti e un cane insieme a mio marito e mio figlio”. Andrii Bilchenko vive nel vagone accanto insieme ad altre due famiglie. Ha lavorato sette anni sul lago di Garda. Faceva lo stuntman, il mago e il cavaliere in un parco divertimenti. “Al settimo giorno di guerra ho perso la testa, mi sono sentito male a stare sotto i bombardamenti e sono arrivato qui. Mia madre ha voluto rimanere nel suo appartamento, non c’è stato verso, anche se il suo quartiere è stato pesantemente bombardato. Vi chiedo solo una cosa: fate smettere di volare gli aerei russi”.
Il mondo di sopra
Fuori, in superficie, è zona di guerra. Lungo il viale principale suona da giorni, ininterrotto l’allarme di una banca. Le vetrine sono completamente sfondate e così ogni finestra di ogni casa, negozio o ufficio che si trova nel raggio di un chilometro quadrato. Dalle scale di un negozio di vestiti scende una cascata d’acqua. Due senzatetto tentano di rubare una cassa di birra e altri oggetti da un chiosco. Uno barcolla. Troppa vodka. Semafori a pezzi, blocchi di cornicione volati lontano decine di metri, mattoni sbriciolati, pezzi di lamiera e detriti ovunque. A qualche centinaio di metri il palazzo del governo o meglio, quello che è rimasto dopo l’arrivo del missile balistico che distrutto ogni cosa qui intorno. Un gruppo di macchine bruciate, accartocciate, è stato spostato in mezzo a una strada dall’onda d’urto. Per passarci in mezzo si deve fare un slalom tra le carcasse annerite. Il palazzo, dentro, è un gigantesco cumulo di macerie. Nel cortile interno è visibile l’enorme voragine che il missile ha provocato. Anche questo non era un obbiettivo militare. Eppure è stato colpito. “Qui era parcheggiata un ambulanza, ma non siamo riusciti a trovarne neanche un frammento, dopo l’esplosione”.
Oleg aveva un negozio di fotografia a Kyiv. Oggi imbraccia un Ak-47 in mezzo alla neve che spazza i viali di Kharkiv. Le esplosioni su susseguono per tutto il giorno. Cupi, enormi colpi di maglio che fanno tremare la terra e le menti. Nel quartiere di Schevchenivsky una palazzina è stata colpita all’ultimo piano. Sotto, un asilo, completamente sventrato. In una stanza rimangono delle sedie colorate e una lavagna. Il resto è distrutto, bruciato. Poco distante la stessa sorte è toccata a un’altro complesso di case popolari. Un gruppo di poliziotti esce da una macchina e corre verso queste modeste abitazioni, sbriciolate dall’esplosione. Hanno segnato atti di sciacallaggio. La jeep è quasi pronta. Nei sedili posteriori e nel bagagliaio Alex e Denis hanno caricato sacchi contenenti cibo, acqua, medicinali e tutto quello che può servire per sopravvivere qualche giorno. Ogni sacco ha un numero e ogni numero corrisponde a un luogo e a una persona. In genere sono persone anziane, sole o famiglie impossibilitate a muoversi. Il luogo da cui partono ogni giorno decine di corrieri che portano aiuti in tutta Kharkiv, specialmente nei quartieri a nord più difficili da raggiungere perché quotidianamente bombardati dai russi, è segreto. Una precauzione presa da questi ragazzi, la maggior parte trentenni, che dall’inizio della guerra lavorano senza sosta per gestire una catena di approvvigionamento che sforna millecinquecento pasti al giorno e movimenta tonnellate di merci. Un magazzino sotterraneo, ricavato da un rifugio antiatomico della Seconda Guerra Mondiale che connette, attraverso una serie di passaggi, diversi locali e palazzine di questo quartiere.
I volontari
Qui ogni mattina alle sette, decine di loro lavorano senza sosta. Diversi non tornano neanche più a casa. Due stanze sono state adibite a dormitorio. Vlad, trentaquattro anni, nella sua vita precedente era un manager per lo sviluppo commerciale. Oggi comanda questa struttura di civili. “Abbiamo organizzato il nostro gruppo in modo militare. Siamo in guerra d’altronde, no? A volte abbiamo da svolgere compiti semplici, come la consegna di cibo, altre dobbiamo consegnare medicinali costosi per persone malate, altre volte ci sono emergenze per incidenti stradali dovuti ai bombardamenti e anche in quel caso interveniamo. Ci focalizziamo sugli individui, chiunque abbia bisogno di un aiuto”. Michael è uno dei suoi collaboratori ed è il capo delle operazioni logistiche. “Ho iniziato organizzando convogli di macchine che portavano a Poltava le persone che volevano scappare, e prima di tornare indietro facevo scorta di merci. Il secondo giorno di guerra, avevamo già messo in piedi tutta la logistica. Abbiamo corrieri che consegnano ovunque. Diamo da mangiare a chi sta nei rifugi, nella metropolitana, negli ospedali e ovviamente anche ai militari e alla polizia. Siamo strettamente connessi con la città di Dnipro e quando portiamo gli sfollati da loro torniamo carichi di merci a Kharkiv”.
La jeep parte attraversando il centro semidistrutto della città. Si sta dirigendo a Saltivka nord, la parte più avanzata del distretto, in prossimità della tangenziale, a meno di cinque chilometri dai soldati russi. Un quartiere popolare, quello di Saltivka, composto da decine e decine di palazzine tutte uguali costruite tra gli anni settanta e ottanta. Solo un paio di giorni prima uno dei corrieri è stato ucciso in queste vie da un colpo di mortaio. Mentre la jeep si dirige ad alta velocità lungo il viale Akademika Pavlova, superato il capolinea dei tram e l’ultima metropolitana, tra i cavi penzolanti delle linee elettriche distrutte e gli edifici sventrati dalle bombe, appaiono sempre più evidenti i segni della barbarie portata da Mosca in questa città di frontiera. Interi piani sventrati dalle esplosioni. In uno degli appartamenti, completamente andato a fuoco, rimangono le tracce di una normale vita familiare: i piatti decorati, le tazze da tè, tutto ridotto in frantumi, mescolato a cenere e neve. I resti di un salotto. Poco più in là una bicicletta da bambino. Nella stanza, annerita dal fumo, è sopravvissuto alle fiamme un orsacchiotto di peluche. Dell’appartamento non rimangono neanche i muri. Ogni via qui porta i segni della distruzione.
Una signora si avvicina con un barboncino al guinzaglio. Il cane, con la coda tra le gambe, trema a ogni colpo di artiglieria che scuote l’aria. Si chiama Halina Krichkova, professoressa universitaria di inglese in pensione. “Ho una sorella a Mosca e posso dirvi che la disinformazione portata avanti dal governo russo funziona. Quando le ho detto che eravamo stati attaccati, mi ha risposto che lei non credeva alla stampa occidentale e che era fiera del suo governo. Me l’ha scritto in questo messaggio, guardate. L’ho pregata di credere alle mie parole, che eravamo in pericolo e che qui i soldati russi uccidevano i civili ma non mi voleva ascoltare. Diceva che il il suo governo faceva bene e che a Mosca i tossicodipendenti li tenevano negli ospedali, non al governo come da noi in Ucraina. Mia sorella crede a quello che gli dice il presidente Putin e non crede me”, dice piangendo. Il checkpoint che porta nella terra di nessuno è presidiato da una decina di soldati ucraini. Uno di loro, Igor, meno di un mese fa era in Albania a un torneo internazionale di arti marziali. E’ tornato a casa un giorno prima che scoppiasse la guerra. Le palazzine in fondo al vialone vengono nuovamente colpite dai russi.
Kharkiv. Il mercato di Saltivka è in fiamme. Una colonna di fumo nero si alza verso il cielo. Fumo denso, che avvolge la luce del giorno, oscura il gelido sole e rabbuia i volti di chi guarda dalla finestra della propria casa l’ennesimo bombardamento avvenuto in questo quartiere. E’ Valeria a mandare un messaggio e una fotografia. “E’ caduto qualcosa vicino a casa mia. Vedo il fumo dalla finestra – scrive su Telegram – Venite?” Valeria ha vissuto dieci anni in Italia, a Modena. Ha un figlio di diciotto anni e non se la sente di partire, perché anche se riuscisse ad arrivare al confine, poi dovrebbe dividersi da lui. Nessun uomo adulto può uscire dall’Ucraina. E questo lei, non riesce neanche a pensarlo. Cinque colpi di artiglieria russa hanno devastato tutta la zona del mercato. Sempre la zona nord della città. I pompieri sono appena arrivati. Attaccano alle autobotti i tubi flessibili delle manichette antincendio e le srotolano. Decine di chioschi prendono fuoco velocemente, come fiammiferi accesi uno dopo l’altro. Un incendio furioso, che si sviluppa velocemente distruggendo tutto quello che incontra. Alcuni di questi negozi vendono prodotti chimici, bombole del gas, materiale per edilizia. Ci sono esplosioni, fiamme su fiamme. Le squadre di vigili si spingono dentro l’inferno in fila indiana, a colpi di idrante.
Il fumo ti entra in gola, tossisci mentre li segui. Un’altra squadra spacca i lucchetti dei chioschi alzando le saracinesche e bagnando preventivamente ogni cosa tentando di fermare l’incendio. Si scivola per terra. Le lastre di ghiaccio sull’asfalto sono coperte da laghi di acqua. Poco distante decine di persone stanno raccogliendo stecche di sigarette da un’altro negozio completamente distrutto dall’onda d’urto. “Non sono uno sciacallo, ma tanto le avrebbe portate via qualcun altro”, dice un uomo, quasi a scusarsi per un gesto che non avrebbe mai fatto, in un altro contrasto. Ma adesso tutto o quasi diventa giustificabile. Dopo pochi minuti cade un altro colpo di mortaio. La deflagrazione è violenta. Si corre per le scale della metropolitana, in cerca di un rifugio sicuro. Poi la fuga in macchina, lungo una strada seminata di carcasse di mezzi russi bruciati davanti a un edificio completamente distrutto. I resti di una battaglia avvenuta gli ultimi giorni di febbraio. Non c’è pietà contro chi invade la tua terra e spara sui civili. Poco distante un centro commerciale è stato preso d’assalto. I vetri rotti da una esplosione, l’acqua per terra che arriva dai piani superiori. Ci sono delinquenti che se ne approfittano e gente che ha soltanto fame. Una anziana signora esce di corsa con un carrello pieno di patatine. Non c’è quasi più nulla all’interno del centro commerciale. Come cavallette, centinaia di persone sono entrate per ore portando via tutto quello che potevano prendere. Degli uomini caricano un bancale preso nel magazzino. La polizia, quando arriva, urla di uscire ma non ferma nessuno. “Non possiamo fare nulla, in un altro momento li avremmo arrestati, ma queste persone vogliono solo del cibo”, al massimo li redarguiamo, dice uno di loro.
Le bombe su Kharkiv continuano a cadere. Migliaia di persone vivono nascoste, le più fortunate in metropolitana, altre nei sottoscala, negli scantinati. In una scuola media del quartiere, nei sotterranei, tra tubi di scarico, stracci sporchi, brande umide e terra, vivono trentacinque persone. Fuori, resti di razzi Grad. Un uomo indica una colonna di cemento. C’è qualcosa appiccicato. Una massa secca di grumi rossastri. “Un razzo è esploso proprio qui, davanti all’entrata. Era uscito per fumare e l’esplosione gli ha tranciato via le gambe. Quello sulla colonna è un pezzo del suo corpo”. Dal seminterrato escono come fantasmi, una dopo l’altra, figure dalla penombra. Sono persone anziane per la maggior parte, le facce dimesse, stanche, infagottate il più possibile per resistere a temperature ampiamente sotto lo zero. Sono gli ultimi della terra, in questa città di sepolti vivi. Ma Kharkiv non è morta, continua a vivere, almeno per adesso, fino a quando i russi non decideranno di aumentare i bombardamenti, portando il terrore ovunque in città .
Dnipro e Zaporizhzhia
La strada per Dnipro è costellata di checkpoint. I controlli sono aumentati. La città stessa, quella di Dnipro, è diventata una fortezza. I suoi lunghi ponti che collegano le due parti dell’abitato sul fiume Dnepr, hanno postazioni e soldati, sacchi di sabbia e cavalli di frisia, e probabilmente sono già stati minati per frenare l’avanzata del nemico, se mai dovesse presentarsi alle porte di questa città. Valera è un ex contractor. Ha lavorato in Iraq e nei servizi anti pirateria sulle navi che passano il Golfo di Aden. Prima che scoppiasse la guerra faceva la sicurezza nei locali. “Ho combattuto nel 2014 come volontario in Donbas. In precedenza sono stato nell’esercito. Ho passato quasi tutta la mia vita nel mondo militare e so cosa vuol dire combattere. Ma oggi non so se farei le stesse scelte che ho fatto in passato. Se mi costringeranno, andrò nuovamente in prima linea, ma solo perché sono obbligato a farlo. Ho una famiglia e un bambino nato da poco. So chi ho davanti – dice -, non sono quattro miliziani ma uno degli eserciti più potenti del mondo”. O almeno, lo era sulla carta. Dopo 29 giorni di guerra, tutti gli obbiettivi che la Russia si era prefissata a livello militare sono falliti. Nessuna conquista delle grandi città, come Kharkiv o Kyiv, nessun sostanziale avanzamento sul terreno, perdite ingenti di uomini e mezzi. Ma Mosca fa comunque ancora paura e il conflitto sta coinvolgendo anche miliziani, ex soldati e militari di altri paesi. La Russia porta con sé ceceni, e dicono anche siriani e libici. Dall’altra parte si dà accesso agli stranieri che vogliono combattere per sconfiggere l’invasore russo. La macchina di Valera si ferma davanti a un magazzino, un grigio palazzone industriale di cemento e vetri.
All’interno un gruppo di persone sta lavorando dei pannelli di acciaio o titanio sotto la fresa. Riproducono artigianalmente le piastre balistiche che si vanno ad inserire nei giubbotti antiproiettile. “Qui ognuno di noi ha utilizzato le proprie competenze riconvertendo questa azienda, che prima si occupava di riparazione computer”, racconta uno di loro. In questo gruppo di persone ci sono ingegneri, fisici, informatici. Di storie come queste è pieno, qui in Ucraina. A Kramatorsk, a tre ore di distanza verso est da Dnipro, Julia, una insegnante di informatica, insieme a un gruppo di volontari, costruiscono i tourniquet, i lacci emostatici di tipo militare utili a fermare emorragie gravi, con le stampanti 3d. In altri luoghi ancora centinaia di donne costruiscono reti mimetiche tagliando e cucendo piccoli pezzi di stoffa colorata su lunghe reti. Anche a Zaporizhzhia, ottanta chilometri più a sud di Dnipro, la gente si organizza. Ci sono anche qui checkpoint, postazioni, trincee, sia dentro che fuori dalla città. Le unità di difesa territoriale, sempre più numerose, controllano il territorio insieme a polizia ed esercito. Il nemico è vicino, a una ottantina di chilometri. Scendendo verso la prima linea delle postazioni ucraine, ancora più a sud, a Kamyanske, la strada diventa un percorso di morte.
Kamyanske, il villaggio fantasma
Razzi Grad conficcati nell’asfalto, macchine bruciate, mucchi di sabbia e blocchi di cemento ovunque. Sulle colline colonne di fumo nero si alzano. “Il nemico attacca, dice un ufficiale guardando dal finestrino dell’auto. Qui dalla fine di febbraio non c’è stata una notte che non abbiano colpito”. Nel villaggio, che una volta aveva duemila abitanti, rimangono una quarantina di persone. I segni dell’attacco della notte precedente sono ancora visibili: i resti di una casa bruciano ancora. La cucina è l’unica parte dell’edificio rimasta intatta. Sui fornelli c’è una pentola annerita e resti di cibo sparsi un po’ ovunque. Un gatto si avvicina ai soldati miagolando, in cerca di cibo. Sono costruzioni semplici queste, di pietra. Qualcuna è più curata, in muratura. Ma rimangono case di contadini, modeste. Abitate da persone che non sanno dove andare e che non hanno neanche le possibilità economiche per pensare di andare via, lontane di loro campi e dalle poche cose che possiedono. Davanti a una di queste un uomo vuole mostrare il luogo dove si rifugiano appena sentono i primi colpi arrivare. Una serie di scalini all’interno di un povero casolare portano a un unico stanzone sporco con un materasso e delle coperte. Ci dormono in otto, quando fuori è impossibile restare. L’uomo mostra con orgoglio ai soldati il suo maiale, lo abbraccia. Ne ha uno solo, una ricchezza per tutta la famiglia, così come i suoi figli sono vestiti con abiti laceri, consunti, e scarpe spaiate. Sembrano usciti da un romanzo verista di Verga, da racconti di altri tempi, eppure sono reali, tangibili. Eppure anche loro, distanti anni luce dalla modernità e dall’agiatezza di chi vive nelle grandi città, subiscono la morte e la tragedia dell’esodo, quando sono obbligati a farlo. Subiscono la devastazione della guerra. Una donna anziana con una tuta rossa e due denti d’oro piange davanti alla sua casa sventrata da una esplosione.
Donbas, dove tutto è nato.
Fugge la gente dal Donbas. Decine di migliaia di persone cercano una via d’uscita dalla regione dell’est che Mosca vuole conquistare per farla diventare parte del suo territorio. La strada che porta a Dnipro, per buona parte dei suoi duecentocinquanta chilometri, è una lunga coda di autovetture, autobus, mezzi di ogni tipo che tentanto di raggiungere luoghi più sicuri a ovest. E questo avviene da giorni. I russi cercano di salvarSI da questo fallimento militare, da questa assurda invasione dell’Ucraina iniziata lo scorso ventiquattro di febbraio e per portare a casa queste terre, sono disposti a tutto. Gli ucraini, soldati e volontari, hanno sconfitto i russi a Kyiv, Chernihiv, Sumy, combattono per riprendere Kherson nel sud e per contenere i russi che spingono dalla Crimea verso Zaporizhzhia. Ma la guerra adesso si è spostata principalmente di nuovo nell’Est. Dove tutto è partito, otto anni fa. Le persone scappano da Sjeverodonetsk da Slovyiansk, da Kramatorsk e da tanti altri paesi e villaggi. Come Kharkiv, paesaggi e aree urbane diventano luoghi disabitati, fantasma. “La città prima della guerra aveva circa 220mila abitanti, oggi ne sono rimasti circa centomila. Ogni giorno almeno quattromila persone se ne vanno”, dice Oleksandr Golcharenko, sindaco di Kramatorsk. “Qui tutti sono preoccupati per le loro vite, i militari russi dicono che vengono a liberare le nostre città ma non c’è nessuno dal quale devono liberarle. Al contrario, ci bombardano. Stiamo cercando di mettere da parte acqua, cibo e medicine per poter resistere almeno un mese, in caso venissimo circondati”. La città è deserta. I negozi, a parte qualche supermercato, sono tutti chiusi. Sacchi di sabbia coprono entrate e vetrine. E’ stato dato l’ordine di evacuazione. La stazione di Kramatorsk da settimane è affollata. Sin dalle prime ore del mattino, si accalcano le persone, molte le donne, i bambini e le persone anziane. Pochi gli uomini. Qui tutti ricordano i pochi mesi di occupazione separatista avvenuta tra l’aprile e il giugno 2014. una occupazione militare effettuata con il pugno di ferro dal famigerato Igor ‘Strelkov’ Girkin, allora comandante delle forze separatiste. Colonnello dell’esercito russo, un passato militare in Cecenia, ex agente del’Fsb, i servizi segreti russi. “Strelkov aveva emanato una serie di editti secondo cui la stessa legge marziale che era in vigore durante la Seconda Guerra Mondiale lungo la linea del fronte avrebbe dovuto essere in vigore a Sloviansk e nelle città sotto il suo controllo, come Kramatorsk. E questo significava che anche un reato minore come rubare un paio di pantaloni da una casa abbandonata era considerato saccheggio. E la pena per il saccheggio era la morte”, racconta Simon Ostrovsky, ex inviato di Vice News e oggi corrispondente speciale per la televisione americana Pbs. Anche lui si trova in Ucraina in questi giorni. Nell’aprile 2014 era stato sequestrato dagli uomini di Girkin. Tenuto per tre giorni in uno scantinato, interrogato e malmenato. Sospetta spia, dicevano i miliziani. Gli stessi che sequestrarono in quel periodo degli osservatori Osce: merce di scambio per liberare prigionieri in mano al governo ucraino. Gli stessi che rapirono, torturarono e uccisero cinque membri della chiesa pentecostale di Sloviansk. Accusati anche loro di essere spie, solo perché di fede protestante. Il nemico è di nuovo vicino, adesso. Molto più potente rispetto agli infiltrati russi del 2014 e i loro alleati locali. Le truppe russe muovono verso sud, dopo aver preso Izyum e Rubizhne. I soldati ucraini tentando con ogni mezzo di fermare la loro avanzata. Da alcuni giorni le forze russe sono impegnate in una manovra a tenaglia che punta a colpire da due direzioni le difese ucraine nel Donbass. “Se nel 2014 la situazione era abbastanza confusa per i separatisti ed erano male armate e senza aerei, oggi i russi usano bombe ad altro potenziale, missili balistici, distruggono scuole e case. Le persone non vogliono rimanere nelle loro città se queste diventeranno un campo di battaglia e se i separatisti e i soldati russi le conquisteranno”, spiega il sindaco Golcharenko. Tutti hanno negli occhi la tragedia di Mariupol e poi i massacri di Bucha. Tutti hanno visto come è stata ridotta Kharkiv, bombardata giorno e notte, i loro abitanti allo stremo, costretti a vivere nelle metropolitane o in appartamenti dove la morte bussa a ogni ora. La linea ferroviaria che collega il Donbas con il resto del paese viene continuamente bombardata. I missili continuano a cadere in lontananza. Forti boati scuotono l’aria di Kramatorsk. Le sirene antiaeree suonano per ore. Un razzo Iskander cade poco fuori Sloviansk. Esplode in aria, forse per un malfunzionamento, o forse perché intercettato, su un gruppo di case di campagna. Un uomo corpulento è appoggiato a una vecchia Lada. È senza maglietta, ha del sangue e tagli sulla schiena. Era in casa quando una delle parti del razzo ha sfondato il tetto della sua casa. E’ ancora vivo, e non sa neanche lui come sia successo. Rottami e detriti sono dappertutto. Parte dell’abitazione ha preso fuoco, le condutture del gas soffiano, squarciate dalle schegge, soffiano fuori violente nuvole di fiamme. Polizia e soldati cercano raggruppare i resti del missile cercando nell’erba e sulla line ferroviaria, a pochi metri di distanza. Poi arriva quel maledetto missile.
Venerdì otto aprile 2022. La strage
Yulia è al suo primo giorno come volontaria in stazione. Insieme ad altri uomini e donne, cerca di organizzare il flusso di persone lungo i binari per portarli ai treni di evacuazione. Deve prendere servizio davanti a un tendone color verde militare, utilizzato come struttura di accoglienza. Un luogo dove si può prendere un tè caldo e mangiare qualcosa. L’appuntamento con lei è proprio davanti a quel tendone, ma Yulia non sa bene l’inglese e spesso utilizza un traduttore che ha sul telefonino. Per scriverci un messaggio e tradurlo si ferma. Cinque minuti di ritardo che le salvano la vita. Noi siamo in macchina lungo un viale che, salito un ponte, sulla destra supera i binari ferroviari e porta alla stazione. E’ poco prima di prendere quel viale, che sentiamo una forte esplosione. Julia manda un video. Dura pochi secondi. Si vedono delle alte fiamme e delle macchina completamente distrutte, sventrate dall’esplosione e divorate dalle fiamme. E poi vediamo un fumo nero, denso, salire verso il cielo. Non è pensabile che sia la stazione, nessuno farebbe mai una cosa del genere, tutti sanno che in quel luogo ci sono donne e bambini, semplici civili che cercano solo di andarsene da questa città. E invece è successo. La macchina sorpassa un gruppo di veicoli bloccati in coda e inchioda in un fermandosi nel parcheggio del piazzale. Urla, persone che scappano, pianti. Un uomo grida, chiede aiuto, chiede dei tourniquet, i lacci emostatici di tipo militare che fermano le emorragie massive. E’ un massacro. Decine di corpi martoriati, feriti, urla, grida di disperazione e di dolore. Sangue dappertutto. Soldati, poliziotti e semplici civili cercano di fare quello che possono per portare aiuto all’enorme numero di persone ferite, tagliate, mutilate dagli shrapnel, le taglienti schegge di bomba. Una donna è seduta su un muretto, la testa reclinata da un lato. C’è un cane ai piedi della sua padrona, entrambi sono morti sul colpo. Una ragazza urla a terra, gli occhi sbarrati, le mancano entrambi i piedi. Il sangue imbratta le pareti, il terreno, i corpi dilaniati dei morti e quelli dei moribondi. Una gabbietta con un topolino è rimasta lì, accanto a delle borse piene di vestiti. Il topo si guarda intorno, la gabbietta è aperta, ma non esce, aspetta l’essere umano che se ne prendeva cura. Che non c’è più. Pozze di sangue e resti di corpi straziati. Per terra, parte delle loro vite. Occhiali, borse, un cavallino di pezza imbevuto di sangue.
I primi soccorsi arrivano, qualsiasi cosa è buona per fermare le emorragie: pezzi di tela e penne diventano rudimentali salvavita. Siamo nel mezzo di questo inferno. Io e i miei colleghi, Luciana e Andrea, persi e sconvolti in questo vortice di dolore e sbigottimento. Ci sono bambini e tante, tante donne. Hanno colpito i civili, hanno ucciso persone che tentavano solo di andarsene. Il caos è totale, arrivano i primi soccorsi, i vigili del fuoco, i militari. I poliziotti portano via chi riesce a camminare o è miracolosamente rimasto illeso. Aiuto altre persone a trasportare una ragazza all’interno di una macchina, ha ferite alle gambe e all’addome, urla. Ho sulle mani il suo sangue. C’è chi guarda muto, attonito, davanti a sé. Impietrito dal dolore e dallo stupore. I corpi di chi non ce l’ha fatta vengono stesi uno accanto all’altro, per terra e poi coperti con un telo di plastica verde. Un poco di pietà per i loro volti sfigurati. E’ stato sconvolgente vedere colpire in maniera indiscriminata semplici persone che stavano solo cercando una via di fuga. Si cerca di portare via i feriti con le macchine, sugli autobus, ovunque ci sia un mezzo per portarli via.
Più di trenta cadaveri vengono caricati su un camion. Poco distante, in una chiesa evangelica, vengono portate centinaia di persone. Non tornano a casa, non vogliono più tornare. Vogliono solo partire, andare via, uscire da questo incubo. Molti vengono portati a Sloviansk con degli autobus, per cercare di proseguire il loro viaggio utilizzando parte e della linea ferroviaria, che è ancora integra. Luciana piange, la telecamera in mano, non la usa e piange. Andrea mi guarda, ha le lacrime pure lui, mi guarda e mi abbraccia. Io sono seduto per terra, ho il respiro pesante, tremo. Perché nonostante anni di guerre e conflitti, non ero preparato a finire in mezzo a tutto questo, e perché, in fondo, non ci si abitua mai all’orrore.
*Questi sono i reportage che ho pubblicato sul quotidiano svizzero ‘La regione’, raccolti e collegati in un unico filo cronologico. La prima parte di questo viaggio e di questa guerra. Molto manca al racconto, molte persone, colori, sensazioni ed esperienze che scivolano tra le mani e che non si possono condensare in spazi preformati. Ci sarà modo e tempo, più avanti, forse in un libro.