Pillole e rose

Ieri cancellavo gli sms dal cellulare. Il grosso sono spam, pubblicità, qualche tentativo di scam, codici vari da siti per autorizzazioni o altro. Nessuno più manda sms. Tra questi ho trovato anche un messaggio datato 30 ottobre 2018.

Sono Matteo, amico di Vera. Chiamami con urgenza“. Ero in cucina quando l’ho letto e ricordo che non volevo neanche richiamare, pensando fosse uno dei suoi soliti casini, casini nei quali non volevo più infilarmi per trovarle soluzioni. Ero arrivato al punto di nascondermi quasi, di elidere ogni possibilità di contatto con lei. Di far mediare, se necessario, ma non intervenire direttamente. A volte di trovare scuse sul perché non avevo risposto a una chiamata o a un messaggio. Ignorare. Erano le 20.03 quando è arrivato l’sms. Vera era già morta da qualche ora. Non la sentivo da mesi, forse da più di un anno.

Mia sorella aveva un disturbo borderline. E avevamo un rapporto già difficile, prima. Non sono mai stato molto presente con lei. Mai stato un fratello modello. Poco affettuoso, o almeno non lo dimostravo. Come sempre un duro, come con tutti ma specialmente con le persone vicine. Non ci si deve mai affezionare troppo.

Del suo disturbo l’ho scoperto solo dopo, quando sono andato a casa sua a prendere documenti, carte, le ceneri di mia madre. Le teneva sul ripiano di una libreria. Sapevo che aveva dei problemi, ma non sapevo cosa, esattamente. I borderline non si rendono spesso conto della loro condizione, in giro è pieno di persone con varie sfumature borderline. Negli ultimi mesi era finita in cura presso un consultorio psicologico vicino a dove abitava. L’ultima delle case, perché cambiava spesso luogo di residenza. L’ultimo dei centri, quando ci andava.

Quando dopo qualche giorno mi sono recato da lei, con me c’erano dei suoi amici. La maggior parte di queste persone io non le conoscevo. Ognuna di loro mi raccontava un pezzo di storia di Vera. Cose che non sapevo. Ed è pesante farsi raccontare da estranei la vita di una persona che dovresti conoscere più di ogni altra. E invece no. E ti dicono che lei parlava di te.

Io non so se sapevano o se potevano capire il motivo della mia non presenza in tutto quel tempo.

C’era anche un suo ex, Mattia, la mia compagna e i miei cugini con i miei zii. Ricordo vagamente una domanda della piccola di mia cugina, già grande per capire il senso della morte. Domande fatte con quella disarmante ingenuità che solo i ragazzini possono avere.

Pile di carte ospedaliere, ricoveri, diagnosi, ricette mediche. Qualche denuncia fatta e ricevuta. Storie di percosse, reazioni violente. Lavande gastriche. Un conto alle poste svizzere, probabilmente vuoto. Tutto lì. Dopo qualche tempo sono andato al Tribunale di Milano a fare la rinuncia all’eredità. Un deja vu, già capitato con mio padre. Altre storie. Delle morti dei nostri cari l’unico lascito, oltre a quello importante della memoria, è l’eredità. Normalmente si lascia un bene. Di tre generazioni l’unica cosa che ho ricevuto sono un centinaio di fotografie e un accendino. Neanche la memoria ho ereditato, persa per la maggior parte in qualche meandro buio dentro di me. Ogni tanto riaffiora qualcosa e devo scriverla, così rimane.

C’era un ragazzo in casa. Lei aveva subaffittato una stanza dell’appartamento a degli studenti. Un po’ smarrito, sconvolto per quello che era successo. Anche preoccupato, perchè non sapeva come recuperare i soldi della caparra e doveva sgomberare entro pochi giorni le sue cose. Bottiglie vuote della sera precedente, quando alcuni di loro si sono ritrovati per parlare di lei che non c’era più. Ho preso poche cose. Una cartelletta, che poi ho distrutto insieme alle carte. E anche un album di famiglia. C’erano foto che non vedevo da due decenni. Io bambino e poi adolescente. I suoi vestiti li hanno presi i suoi amici. Non c’era molto altro. Non so se qualcuno era già passato prima a portar via qualcosa. Non ho trovato un diario o cose scritte di suo pugno. Cose che spiegassero. Ma forse non avrei mai avuto il coraggio di leggerle.

E poi c’erano i cani, dai quali non si separava mai, che ha preso credo la stessa persona che mi ha mandato quel messaggio il 30 ottobre. Non credo di averli visti in quei giorni, neanche al funerale. C’era un po’ il suo vecchio mondo milanese davanti al feretro. C’era chi, nonostante tutto, era riuscito ad amarla nonostante le sue problematicità: uomini e donne del mondo dei tatuaggi, alcuni suoi ex, amiche d’infanzia, Hell’s Angels, alcuni amici comuni e qualche mio amico. Cure, Joy Divison e Bauhaus come colonna sonora. Dopo ci sarebbe stato un ultimo saluto in un pub, ma non ci sono andato.

Volevo allontanarmi.

In quei giorni ho cercato di ricostruire. Chi ha chiamato l’ambulanza, a che ora. Cosa era successo prima. Chi l’ha trovata. E anche dopo. Il primo intervento, l’auto medica, l’ambulanza con il ventilatore meccanico, il trasporto a Rozzano, all’Humanitas. Ho voluto le carte dell’autopsia, ho parlato con l’anestesista che l’ha ricevuta. Ha spiegato il tentativo di collegarla ad una macchina per la circolazione extracorporea, l’aorta spezzata. Fine del discorso. Tutto molto freddo, molto metallico. Molto razionale. Luce bianca. Nessun sentimento.

Lei non poteva permetterselo” dice la voce alle mie spalle. Cazzo, me lo hai già detto.

Fa male saperlo e sentirlo continuamente, che non potevo e non posso. Quando è successo è stato un fiume in piena. Proteggersi significa essere duri e quando non lo fai, il cuore si può spezzare.

– “L’essenziale e’ invisibile agli occhi“, ripetè il piccolo principe, per ricordarselo
– “E’ il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa cosi’ importante

La mia rosa è protetta da una teca. Ha due foglie. Una terza è a terra. Rimarrà sempre così, fino a quando non esisterò più.

La storia che mi hai raccontato è molto bella” dice Daniele, mentre incide la mia pelle. Parliamo di musica, di esistenze interrotte, di scene romane e milanesi, di scooteristi e della vita e quanto a volte senti il suo peso fino in fondo, fino alle dita dei piedi e ti schiaccia a terra. Il ronzio della macchinetta copre il mio registratore, diventando il tappeto sonoro sul quale si adagiano parole e risate. “Dare un significato ai tatuaggi non è una cosa molto comune oggi e tu ne hai dati diversi, al tuo“. In fondo quello che siamo e siamo stati è scritto sulla nostra pelle. Libri ambulanti. Una lettura non comune, non per tutti. Solo chi sa può aprire quei libri. Solo chi ha quelle chiavi. E non ci sono copie in giro.

Lei ha usato la parola ‘spiriti’ al posto di ‘fantasmi’, soffermiamoci un attimo sul significato di queste due parole“. Già, ho usato spiriti parlando di entità che non vogliono andarsene, per svariati motivi, dai luoghi dove hanno abitato o dove è successo qualcosa. Ovviamente una metafora. I fantasmi hanno qualcosa di più profondo, personale, sono legati alle nostre paure. Per quello ho una paura irrazionale nell’entrare in luoghi abbandonati. Per i fantasmi, perché gli spiriti li so dominare, sono distanti. I fantasmi no. Non riesco ancora, in questo gioco continuo di figure che si sovrappongono.

Sick Tamburo, gruppo nato dai Prozac+. Il pezzo si chiama ‘Parlami per sempre’.

E anche se adesso non mi parli, l’importante è che tu stia bene.

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